Una storia da Ragazze perbene in fuga | Nel romanzo di Olga Campofreda

Ragazze perbene di Olga Campofreda esce alcune settimane fa per NNE con una copertina colorata di un potente rosa shocking e una fascetta gialla siglata dall’ultimo Premio Strega Mario Desiati, che annuncia: “La storia intensa e lieve di un’anima libera che riconosce le proprie ferite e non ha paura di cambiare”. La definizione di Desiati ha continuato a interrogarmi a lettura finita, portandomi a chiedermi quante diverse interpretazioni di una storia si possano fornire in un paio di righe. Per esempio, mi sono chiesto cosa avrebbe scritto proprio lei, Olga, sulla sua fascetta. Forse vi avrebbe riportato una frase tipo questa: “Quante persone siamo stati dall’ultima volta in cui abbiamo provato a essere noi stessi?” (182). È una citazione di un passaggio che si trova tra le ultime trenta pagine del volume, quando ormai il lettore si è fatto un’idea definita di tutti i personaggi e prova a chiedersi come finirà la storia. Oppure, quest’altra: “L’adolescenza è un territorio infame da cui nessuno esce mai vivo, e noi di certo non abbiamo fatto eccezione” (182). Altrettanto efficace nel dipingere le difficoltà di navigare i disagi della pubertà, in un contesto in cui è spesso arduo rintracciare e tenere insieme tutti i pezzi della propria identità senza perderne qualcuno lungo la strada, perché non sembra incastrarsi bene nel puzzle che le nostre famiglie e le comunità più estese in cui sono inserite nelle realtà della provincia ci hanno cucito addosso. Se fosse consentito al lettore scegliersi la fascetta di un libro, personalmente opterei per una di queste ultime due.

Ragazze perbene è una storia di due cugine che crescono allontanandosi progressivamente, legate da un’amicizia che si disperde e si ricongiunge secondo una delle più belle immagini riportate da John Barth nella sua Opera galleggiante, ed è ambientata abbastanza vicino a Napoli da ricordare un’altra celebre storia di amicizia femminile, coming-of-age e difficoltà di coesistere in un ambiente regolato dal culto dell’apparenza e regole sociali molto ristrette che non credo ci sia bisogno di citare esplicitamente in questa sede (ma lo farò comunque più avanti). Si svolge a Caserta, una città già di suo bella e dimenticata, raramente portata all’attenzione del pubblico mainstream nonostante le glorie passate della sua bellissima reggia l’abbiano resa un imprescindibile hotspot turistico, ma anche a Londra, seppure appaia a sprazzi. Attraverso la descrizione degli anni di crescita nel mondo para-urbano di Caserta, sovrapponendo una vicenda fortemente individuale a quella di una intera generazione, Olga riesce nel rarissimo tentativo di raccontarci una storia che ancora nessuno aveva scritto e che necessitava di essere trasmessa: quella di una fuga ragionevole – un “dispatrio”, per usare un’altra espressione letteraria resa celebre dall’illustre precedente Luigi Meneghello, che con Olga condivide il duplice profilo di accademica e scrittrice, nonché la scelta di trapiantarsi nel Regno Unito – e della scelta speculare di chi invece decide di abbracciare senza condizioni l’insensatezza di un ruolo prestabilito dal contesto in cui si è cresciuti, a cui molti miei coetanei – e soprattutto, mie coetanee – si sono sentiti a un certo punto chiamati. Perciò a molti livelli Ragazze perbene è anche la storia di una generazione perduta, autodistruttasi non con l’alcool né con le droghe, ma lentamente, attraverso la propria abnegazione, per l’incapacità di opporsi ad aspettative percepite come impossibili da non deludere già negli anni Novanta in cui si svolge l’adolescenza delle protagoniste. Ogni ulteriore indugio nella trama mi sembra fuorviante e controproducente, perché da una parte nega il piacere di scoprire queste ragazze poco a poco procedendo nella lettura del libro, da un altro perché credo che il suo cuore risieda nelle sue ellissi, nelle immagini che si aprono tra una pagina e l’altra, piuttosto che negli eventi raccontati, negli odori ritrovati e negli stati d’animo che si avvolgono intorno alla scelta delle parole scelte accuratamente, cercate negli stessi cassetti da cui nella storia emergono diari, fotografie, biglietti.

Del libro di Olga credo colpisca soprattutto l’atipicità di Clara, voce narrante ma protagonista che riesce sempre a rimanere fuori fuoco, “una che fugge”, che “corre lontano anche quando sta ferma” (186), nelle parole di Luca, a cui oppone il “punto fermo” costituto dalla cugina antagonista Rossella, che è in procinto di sposare. Dell’incipit del libro sorprende la scelta dei tempi, del luogo, e del punto di vista: Napoli catturata in uno dei momenti più intensi del ritorno, quello dell’atterraggio all’aeroporto di Capodichino, con il celebre Vesuvio che appare nell’inatteso spettacolo di luci e colori del tramonto com’è proiettato sulle vetrate dei grattacieli che da sempre hanno fatto a pugni con lo skyline della città e i suoi stereotipi, come appare allo sguardo di un intero velivolo di persone che vedono la città per la prima volta in pieno controtempo rispetto alla protagonista che ritorna. Viviamo da subito il conflitto silenzioso tra le aspettative di chi vive Napoli nella sua versione più romantica e la delusione dell’espatriato, che invece si abitua alla sua dimensione intermittente della lontananza, insieme all’attesa mancata di un gesto inutile che non si ripete, quello dell’applauso all’atterraggio, un rito di conforto che all’improvviso è zittito e denota un’incrinatura nella routine del ritorno, qualcosa che non torna, una disconnessione inattesa. Come Clara, il libro si presenta attraverso un momento di “aspettative disattese e occasioni perse”, che anticipa la consapevolezza che ogni scelta compiuta comporta una serie di occasioni mancate. Nel momento del “dispatrio”, c’è una parte di noi che rimane da questa parte, nel ricordo delle persone e nel loro desiderio di averci vicini, quello dei nostri genitori, della nostra famiglia, quello che vive nella casa dove siamo cresciuti e che abbiamo lasciato. Per una ragazza del sud però c’è qualcosa in più, che nel romanzo di Olga viene fuori in modo più sfumato ma più diretto che nelle geniali amiche di Elena Ferrante, c’è il rifiuto di essere rimaste al posto che ci era stato assegnato, quello di Rossella, che invece sposa il suo primo amore, Luca, e decide di accoglierlo. Riconosciamo, in Olga, un continuo doppio passo e un senso di inadeguatezza incolmabile, uno scarto tra l’immagine che ci è costruita addosso e quella che decidiamo di vestire diventano protagonisti delle nostre vicende, nella sua voce risuona quella di una città di provincia che non ha bisogno di eroi e che desidera la normalità con il trasporto con cui si insegue un’utopia. Anche il titolo, nella sua dimensione per niente eccezionale, richiama una normalità ambita in un posto in cui gli eventi si perdono nella soglia tra realtà e racconto “perché tutto sembri eccezionale e perfetto”.

Ci sono molti altri buoni motivi per cui vale la pena leggere il libro di Olga, tra cui emerge la capacità di riconoscere e accogliere il proprio passato come eredità al netto di ogni nostalgia, in una visione che non è disincanto né illusione, giusto una cicatrice che rimane lì a perseguitarci ogni volta che vi ci cade sopra lo sguardo ma senza provocare dolore. È un modo per uscire dall’impasse segnato dalla narrazione degli anni Novanta che negli ultimi anni è trasmessa a chi non li ha vissuti attraverso una sorta di filtro spielberghiano che li romanticizza proponendoceli come ultima età dell’oro, trascurandone i risvolti traumatici, come accade in webserie come Generazione 56k, e dall’opposta violenza normalizzata e a tratti epica delle narrazioni femminili del sud, attraverso il punto di vista di una ragazza che ha trovato la sua spinta liberatoria per allontanarsi dalle molteplici oppressioni in cui è cresciuta senza rinunciare a una sua propria delicatezza. Questa visione interiorizzata del coming-of-age nelle periferie del sud non lo troviamo in Ferrante, in cui i grandi tormenti sono tormenti universali, perché è un carattere tutto locale del sud Italia, che da Roma in su qualsiasi altra persona farebbe fatica a comprendere, come la capacità di conservare i dialetti come forma di espressione primaria, perché ci mettono in contatto con un mondo sommerso che ci viene trasmesso con modalità che ne rendono difficile la trasmissione a chi non l’ha vissuto, e ci viene fornito insieme a una lingua che è giusto che ognuno di noi possa utilizzare per tenere fuori le persone. Da questo punto di vista, trovo che il libro di Olga sia un libro coraggioso e che riesce a comunicare attraverso profondità che molti di noi soggetti nomadici hanno deciso di lasciare seppellite, riaprendole.

C’è poi un aspetto particolare dello sguardo di Olga che viene fuori anche leggendo il suo libro di saggistica su Pier Vittorio Tondelli – non è causale che a volte tra critici e autori ci si scelga – ed è appunto la sua capacità di descrivere l’individuo nella generazione al contempo riuscendo a tenerli separati. Ed è all’incrocio di queste due tensioni che oscillano tra la ricerca della propria interiorità e il riconoscimento di una storia comune che Olga, credo, scelga il romanzo al memoir, che ultimamente è diventato una forma privilegiata per questo tipo di narrazioni, e in questa capacità riconosciamo un potenziale che proietta Olga nello stesso mondo frequentato da autrici italiane quali Viola Di Grado e Claudia Durastanti, in cui l’esperienza del nomadismo biografico è una riflessione di un nomadismo interiore e di un’incapacità di aderire ai confini che ci sono stati disegnati intorno, che dal punto di vista femminile sono estremamente più ristretti e claustrofobici. Si tratta di scrittrici meravigliosamente fuggitive, secondo il titolo azzeccatissimo di questa serie lanciata da NNE in cui il libro è ospitato.

Cafè Trieste, 1975

Mantenendo a fuoco l’autrice, bisogna specificare che Ragazze perbene non è un romanzo d’esordio, e sarebbe un torto per il libro e per chi l’ha scritto considerarlo tale, sebbene sia indubbio che nel mercato editoriale rappresenti quello che in inglese è definito break-through. Negli ultimi anni ho frequentato Olga come collaboratrice in progetti accademici e come amica, ma in realtà, la prima volta che l’ho incontrata, mi sono presentato a lei in qualità di suo lettore. È successo a Londra durante un convegno di italianisti, alcuni anni dopo il mio primo viaggio a San Francisco. In quel contesto avevo letto il suo Caffè Trieste, pubblicato nel 2011, un diario di viaggio a San Francisco ma anche la storia dei vari personaggi che animavano la comunità dei poeti di North Beach, più o meno tutti defunti negli ultimi anni, a partire dal più celebre, Lawrence Ferlinghetti, il cui nome torreggia nella riedizione del libro con il titolo meno discreto di A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti, del 2019. Sapevo che Olga proveniva dalle stesse cerchie di persone orbitanti intorno a Napoli negli anni in cui l’ho vissuta più intensamente, ma non ci siamo mai incrociati lì in quel periodo, né in periodi successivi. Un amico comune – un altro personaggio transnazionale, che ormai incontro solo all’estero – mi aveva detto, sai, ho un’amica che ha scritto un bel libro su un viaggio a San Francisco alla ricerca di Ferlinghetti, te lo consiglio se ti è piaciuta così tanto la città. Perciò quando ho aperto Ragazze perbene mi sono chiesto se sarebbe prevalso l’amico, il collaboratore universitario o il lettore, ma mi è bastato scorrere le prime righe per addentrarmi completamente nella descrizione dei due mondi paralleli che si avvicendano intorno alla protagonista, due dimensioni che io per primo ho vissuto con la stessa altalena emotiva descritta da Olga, anche proprio in momenti come quello in cui scrivo, seduto al tavolo nella stanza di una fredda casa di Bristol, una città che peraltro di suo rappresenta per me la sede di un ritorno e mi riporta ad anni in cui ero un collaboratore molto più assiduo di questa webzine. Sarà una curiosa coincidenza, che non ho mai incontrato Olga a Napoli, né a Caserta, né in quei luoghi che appartengono al nostro passato, o forse no. Ci siamo incontrati molte altre volte a Londra, una volta a Brighton, una a Bologna – che è probabilmente, tra le città italiane, quelle che ha una vocazione più internazionale per molti aspetti – una volta ci siamo quasi visti in Arizona, se non ci si fosse messo il Covid di mezzo. Se penso a lei la immagino sempre a Londra o a San Francisco. Come Clara, anche Olga è una persona che fugge e che rimane sempre un po’ fuori fuoco, come la sua prosa che è levigatissima ma in punta di piedi, dandoti l’impressione che chi legge debba essere sempre pronto a fuggire verso il capitolo successivo.

Nota: Una versione leggermente rimaneggiata nell’incipit di questo post, in italiano e in traduzione inglese, è stato pubblicato in concomitanza sul blog personale bilingue di Francesco Chianese MultipleItaly.com, dove è possibile seguire la sua ricerca sulle migrazioni e diaspore italiane nell’ambito del progetto di ricerca TransIT – Many Diasporas from One Transnational Italy (2020-23).
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