Radiohead – A Moon Shaped Pool

Eccolo qui il nono album di studio dei Radiohead, l’attesa è finita, a più di cinque anni dall’ultimo The King of Limbs, la band di Oxford rende disponibile (per ora solo su piattaforma digitale) il nuovo e attesissimo A Moon Shaped Pool. In questi giorni, complice un’isteria collettiva, si è parlato di operazione di marketing a precedere l’uscita del disco ma in realtà a ben guardare c’è stato davvero poco: la cancellazione dei contenuti sui principali canali comunicativi (sito e social d’ordinanza) e poi due video preceduti entrambi poche ore prima da un breve estratto dello stesso. Questa isteria collettiva capace di generare infinite discussioni sul significato di un segno, un pezzettino di copertina, un frammento di video, una fotografia postata su instagram o le dichiarazioni di un collaboratore se da un lato può, come ogni atto isterico, innervosire una buona fetta di pubblico è però l’emblema dello status che i Radiohead hanno raggiunto negli anni. Non esiste gruppo rock, perché è di questo che stiamo parlando, questa l’attitudine di là da scelte musicali che ne hanno attraversato la ormai lunga carriera, capace di attirare ancora l’attenzione su di sé in maniera completamente trasversale dal mondo indie (qualsiasi cosa possa significare ancora oggi) a quello più propriamente mainstream.

Uno status da cui è derivato un potere che i Radiohead hanno sempre affrontato con grande responsabilità declinando ogni possibile suggestione pop e restando, con una fiducia incrollabile, in un ambito artistico che fa della coerenza e di un equilibrato approccio all’avanguardia la sua ormai inconfondibile cifra stilistica.

Oggi che abbiamo già diversi ascolti del nuovo lavoro alle spalle possiamo dire che la cancellazione dei contenuti dai siti ha assunto, più che i disparati significati politici avanzati negli scorsi giorni, il preciso intento di tirare una linea e rapportarsi alla propria storia in maniera diversa. Guardare senza frenesia né ansia alla propria esperienza musicale, una tra le più interessanti del novecento musicale e artistico.

Almeno sette delle undici tracce non sono in realtà completamente inedite. L’ultima, True Love Waits è in realtà la sola a essere stata incisa su disco ma nella sua versione live per voce e chitarra nell’Ep I Might Be Wrong risalente al 2001 ma scritta nel 1994 ai tempi di The Bends. Ovviamente qui, nella sua prima incisione in studio, è rivestita di un vestito completamente nuovo. Altri pezzi risalgono agli anni passati e hanno beneficiato di fugaci apparizioni live. Se da una parte si potrebbe bollare facilmente questo recupero come mancanza di creatività dall’altra appare invece ingeneroso verso una band che finora non ha mai lasciato niente al caso e che sembra mostrare l’esigenza di fare i conti con se stessa per aprirsi a un nuovo corso.

Questa idea è resa più forte dall’ascolto di un disco che, a differenza dei precedenti, mostra attraverso una sorta di straordinaria calma l’abbandono dell’ossessione a stupire, della necessità e di conseguenza anche della trappola del costante cambiamento, della novità assoluta.

È come se i Radiohead fossero riusciti a liberarsi di un’ossessione formale costruendo un disco che raccoglie l’ispirazione proveniente da più parti nel loro passato e su quelle emozioni costruire qualcosa di nuovo come in un rapporto naturale tra cose passate e la capacità che ha la memoria di rivestirle di nuovi significati.

Un disco che è insieme molte cose, una raccolta di canzoni, sicuro: Identikit è una sorta di canzone perfetta, un compendio di quello di cui i Radiohead sono capaci, beat elettronici e percussioni digitali, il canto di Yorke, ora soffuso ora ricco di leggere sfumature melodiche che si aprono sorrette dall’incidere del basso come una radura in mezzo a un bosco fitto, l’uso dei cori e il ritorno addirittura a un assolo di chitarra.

Nello stesso tempo è anche un unicum, che sembra quasi l’accompagnamento di un film capace di ricreare un paesaggio sonoro di grande nitidezza attraverso un uso degli archi non solo come arrangiamento ma come parte integrante dell’elaborazione musicale, un piano che puntella l’intero album come gocce di pioggia a diradare la nebbia fumosa e uno sguardo su certa musica contemporanea, minimalismo in primis (evidenti gli echi di maestri come Riley e Reich e non solo nel singolo Burn the Witch).

Un disco che si apre e si chiude, che vive di slanci improvvisi e altrettanto improvvise ritirate, che gioca mirabilmente con un suono sospeso tra filastrocche e grandi aperture orchestrali (affidate alla London Contemporary Orchestra).

È evidente il grande lavoro di Jonny Greenwood da anni probabilmente il vero motore artistico della band. A lui si devono tanto la presenza di Paul Thomas Anderson dietro la regia del bellissimo video per Daydreaming (è da Il Petroliere che Greenwood cura le colonne sonore del regista californiano) e il lavoro di orchestrazione e di arrangiamento che riesce a dare un senso costante di atmosfera sospesa.

A Moon Shaped Pool è un disco che sembra il racconto di un’apocalisse placida, in cui l’ansia tipica del suono dei Radiohead sembra sciogliersi in un calore molto più umano, basta ascoltare il tenero avanzare della bossa nova di Present Tense così come le liriche di Yorke che attraversano il disco con riferimenti costanti alle relazioni umane, all’amore, al tentativo di trovare una strada dentro questo mondo.

Deserti, ghiacciai, infinite radure, il cielo stellato: questo il paesaggio che i cinque, più il fedele Godrich, riescono a costruire senza alcuna forzatura con un’incredibile naturalezza. E’ come se i Radiohead fossero di nuovo a un anno zero e offrissero al pubblico un lavoro crepuscolare d’infinità levità e intima bellezza, un soffio, una carezza appena accennata.

Un disco che sembra essere nato non da un’urgenza ma da una contemplazione e cui è necessario lasciarsi andare per gustarlo appieno. Che racconta un intero mondo che passa per l’elettronica, la melodia e il tribalismo, il rock e il minimalismo, che mescola i Pink Floyd più acustici alle composizioni di Penderecki ma con estremo pudore lasciando per strada e nelle orecchie dell’ascoltatore un’infinità di piccoli indizi e riuscendo, ancora una volta, a compiere il piccolo miracolo di far rilucere di bellezza anche i meandri più oscuri del cuore e della vita dell’uomo.

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