L’estate ci sorprese, cantava un poeta, ma non è sorprendente che al culmine dell’estate cresca la voglia di brevità. Di sorsi d’acqua e di birra fresca come di narrativa breve. Questa volta ci lasciamo sedurre dalla stagione calda per smarrirci nel racconto italiano: esploriamo i narratori del Novecento, ma ci muoviamo pure indietro e avanti con gli anni e i decenni. Un invito illimitato per chi abbia voglia di leggere un racconto.
Casa al mare ed Estate – Natalia Ginzburg
È nata d’estate, Natalia Ginzburg. Sotto il segno del cancro. Le estati che ha raccontato sono sempre malinconiche. A pensarci bene è proprio la malinconia il sentimento che si addice a questa stagione, dietro quel convinto strato di spensieratezza c’è sempre altro. E Natalia sa trasporlo su carta quell’altro, dimenticandosi spesso di stati d’animo più leggeri.
C’è una sua raccolta di racconti lunghi o romanzi brevi che si chiama, appunto, Cinque romanzi brevi – pubblicata per la prima volta da Einaudi nei Supercoralli nel 1964, un anno dopo Lessico famigliare – che raccoglie le prime prove da narratrice di Natalia, in forma breve o lunga. Vicino ai più corposi e probabilmente più conosciuti La strada che va in città, È stato così, Valentino, Sagittario e Le voci della sera (i Cinque a cui si fa riferimento da titolo) trovano posto altri racconti che occupano meno pagine. Tra questi ci sono Casa al mare ed Estate. Il primo risale al 1937, il secondo ha origini meno certe, ma come conferma l’introduzione di Cesare Garboli dovrebbe essere coevo di È stato così e quindi scritto tra il 1946 e il 1947. In entrambi i racconti l’estate c’è, è presente per ambientazione e rimandi, eppure a farla da padrone è sempre quella malinconia di cui prima, insieme all’incertezza e a quella ripugnanza del cuore che sembra non voler mai abbandonare i personaggi.
Casa al mare rientra in quella schiera di numerosi piccoli racconti che Natalia Ginzburg scrisse tra i diciassette e i ventidue anni, come ci fa sapere nella Nota alla raccolta, che l’editore ha usato come prefazione. In questo racconto, fa per la prima volta una cosa che poi, in tutta la sua produzione letteraria, non ha più rifatto: ha finto di essere un uomo. Al di là di questo espediente, il fatto più importante è che Ginzburg scopre qui per la prima volta la prima persona, voce che ha sempre mantenuto e le stata tanto cara.
[…] E così adesso hai visto anche tu come siamo –. La sua voce era spenta e amara. Gli posi la mano sul braccio. – Ma non soffro per questo, – egli mi disse, tu potessi capire come tutto mi è lontano! Neppur io so quello che voglio –. Ebbe un gesto come d’impotenza. – Io… io non so, – disse.
da Casa al mare
È la storia di un invito inatteso, Casa al mare. E di come le insicurezze trasfigurino le persone più di quanto si possa immaginare. Un uomo viene invitato al mare da un amico. Non lo vede da anni, non conosce la sua famiglia, ma viene avvisato vagamente da chi lo ospita di una qualche forma di difficoltà per cui necessitava del suo consiglio. Fatta la conoscenza di Vilma e del bambino, durante il soggiorno al mare ci si ritrova spesso davanti a scenette famigliari, in cui l’atmosfera tesa non fa che confermare la situazione difficoltosa già accennata. Fa capolino tra i presenti Vrasti, un personaggio singolare, un musico, nei confronti di cui non è sconosciuta una certa simpatia da parte di Vilma. Simpatia destinata a svanire con l’arrivo dell’amico del marito. Nessuno, in quella famiglia, sa quello che vuole: stare insieme, non starci, lasciarsi trascinare. Nonostante il caldo della stagione, è un racconto distaccato e freddo. Proprio come lo voleva Natalia. L’elemento tragico posto verso la fine non fa altro che acuire l’effetto narrativo desiderato e disgregare i personaggi, che portano così le loro rispettive indecisioni da tutt’altra parte.
Era estate, l’estate era calda, avvampante nella grande città, e quando percorrevo in bicicletta il viale asfaltato sotto gli alberi, un senso di repulsione e d’amore insieme mi contraeva il cuore per ogni strada, per ogni casa di quella città e nascevano ricordi di varia natura, scottanti come il sole, mentre fuggivo scampanellando.
da Estate
Estate, il racconto con cui si è scelto di chiudere i Cinque romanzi brevi, è breve e soffocante. La protagonista, una giovane lavoratrice e madre di due ragazzetti già orfani di padre, si estranea dai suoi affetti e decide di trascorrere la stagione in città, perché stanca di vivere. Tenta il suicidio, ammettendo di non riuscire con quella ripugnanza che le è nata nel cuore. Poi si sveglia, come da un lungo e tetro sonno, e si domanda come ha potuto fissarsi su cose tanto futili per tutta l’estate. Una storia sulla vita che pesa come un macigno, sulla solitudine di ognuno, sul sentirsi improvvisamente inutili nella vita degli affetti più cari, che Ginzburg decide di non far finire in tragedia, ma con un pensiero sicuramente aperto e rassicurante.
Due racconti, Casa al mare ed Estate, che pur essendo prove giovanili sono state un importante punto di partenza per tutte le opere successive e mostrano quella profonda introspezione nell’animo umano, mai assente in Natalia Ginzburg, e che sì, forse non raccontano l’estate come siamo abituati a pensarla, ma ci danno modo di riflettere su molto altro.
Federica Guglietta
Lo scialle andaluso – Elsa Morante
Andrea trattava sua madre come il simulacro di un oggetto ripudiato, che fu vivo nel nostro cuore in tempi ingenui, e di cui non c’importa più nulla
Nel 1963, superati i cinquant’anni e in piena crisi personale, Elsa Morante lavorò a una raccolta di racconti che le permise di confrontarsi con la sua produzione nel genere, recuperandone alcuni tra i primi scritti – quelli pubblicati negli anni quaranta ne Il gioco segreto – insieme con altri, usciti in anni più recenti: è il caso proprio de Lo scialle andaluso, scritto nel 1951 e pubblicato su Botteghe Oscure due anni più tardi, che dà il titolo alla raccolta. Lo scialle si erge a paradigma e a massimo risultato nel maneggiare i temi che in filigrana attraversano l’intera raccolta: quelli della psiche e della maternità. Il racconto è, infatti, incentrato sul rapporto complesso – quasi morboso – che s’instaura tra il piccolo Andrea e sua madre, la giovane siciliana Giuditta Campese, una vita dedicata al sogno di diventare prima ballerina e un’anonima realtà confinata alle ballerine di fila del Teatro dell’Opera di Roma. Al sogno della madre, alla sua determinazione, a una vita da bohémienne – nonostante i due gemelli – fa da contraltare l’odio del figlio per la sua professione: le assenze durante le esibizioni, le feste in casa, gli ospiti artisti, la sua percezione di scandalo e una possessività che va oltre ogni rapporto edipico. Un’improvvisa conversione religiosa dentro a una santa estate e il declino fisico e artistico di una donna che non è mai riuscita a coronare il suo sogno, saranno l’occasione per un riavvicinamento che, all’interno di note dolci, lascerà spazio a un sapore sempre più amaro. Lo scialle andaluso è un piccolo capolavoro d’introspezione psicologica, capace di costruire, attraverso piccoli scarti, un ritratto dei suoi personaggi distante anni luce dalla banalità di certi bozzetti; tutt’altro: qui Elsa Morante sa condurre il lettore in un universo letterario da cui emergono con incredibile vividezza le vite di personaggi provinciali che, in un modo o nell’altro, provano a fuggire – attraverso la ricerca di un senso – dalla banalità di una quotidianità che li stritola e che fa esplodere, dal luogo dei propri rimossi, la ricchezza ma anche la miseria di sogni che s’infrangono nei confini sfumati di vite piccole e delle loro malinconiche e umanissime meschinità.
Fabio Mastroserio
L’avventura di un lettore – Italo Calvino
Ma, nuotando, s’accorgeva che la curiosità che andava prendendo più posto in lui era quella di sapere -mettiamo- della storia di Albertine. L’avrebbe ritrovata o no, Marcel?
La vita si vive di suo, semmai ci invita, suggerendo desideri, qualche volta sommergendocene. L’estate è epitome di questo senso di offerta: traboccare di vita e dilatarsi di tempo, con la luce inesorabile a innervare ogni occasione persa. Amedeo Oliva ha scelto la più vigliacca delle rinunce a vivere, la più avvolgente: adagiato su uno scoglio liscio, legge. La sua passione per le storie lo porta a consumare avidamente tomi su tomi: leggere è un residuo accanito della vita attiva a cui negli anni, poco a poco, va rinunciando. Ma c’è dell’altro:
«Oltre la superficie della pagina s’entrava in un mondo in cui la vita era più vita che di qua, da questa parte: come la superficie del mare che ci divide da quel mondo azzurro e verde, crepacci a perdita d’occhio, distese di fine sabbia ondulata, esseri mezzo animale e mezzo pianta».
Solo il mare, la sua freschezza e trasparenza luminosa riescono a distoglierlo dalla lettura, e a salvarlo dal sole cocente. Finché il suo campo visivo non viene attirato da una figura di donna: da quel momento in poi la sua attenzione di lettore metodico viene messa in crisi da un corpo femminile, e dalle possibilità che annuncia. Le avventure riunite nella raccolta degli Amori difficili, racconti scritti negli anni Cinquanta da un Calvino che si divide tra fiaba e realtà – le due dimensioni sempre comunicanti, quasi l’una il seguito dell’altra – offrono freddi spaccati naturalistici del cuore umano. Ciò che regna incontrastata è l’incomunicabilità, il mistero insondabile dell’altro, sempre fatalmente lontano, in questo racconto remoto rispetto alla voce, così intima, che si solleva da una pagina scritta. Leggere Amedeo Oliva mentre «insegue per le righe bianche e nere il cavallo di Fabrizio del Dongo», o accompagna Raskolnikov su per i gradini verso la porta della vecchia, ci offre uno specchio del nostro piacere di lettori: in fuga dalla realtà e per questo vili? O a nostro modo avventurosi, lanciati in una realtà altra, seppure immobile e così poco esteriore?
Simona Ciniglio
Mezzanotte – Carlo Dossi
Carlo Dossi può essere illegibile, come può esserlo uno scapigliato sui generis con la sensibilità di un uomo della seconda metà dell’Ottocento che ha pure voglia di mettersi a sperimentare con la lingua, che tenta riforme grammaticali come l’introduzione delle due-virgole, del doppio punto interrogativo (¿ ?) ed esclamativo (¡ !) alla spagnola, nonché degli accenti sulle parole alla francese. Ma anche si dovesse fare mezzanotte a forza di andarci piano, vale la pena di avventurarsi nella lettura di un italiano atipico che ha provato a portare un po’ di quello spirito decadente di memoria baudelairiana nella nostra terra. Dossi va contromano, insieme a gente come il maledetto Emilio Praga, o a quell’Igino Ugo Tarchetti che pure aveva voglia di giocare con le parole, come fa con le vocali ne La lettera U (o Manoscritto d’un pazzo). E così nelle sue Goccie d’inchiostro, che sono racconti brevi – brevissimi, il conte Dossi gioca spericolatamente, come nel quadretto di Mezzanotte che si apre con un’esortazione ai lettori: “Lettori mièi, niente paura! non vi allargate dal muro. Oggidì, questa non è più l’ora dei ladri; oggi, si ruba in pieno meriggio”. Piccolissimo, l’affascinante ritratto della mezzanotte di Carlo Dossi ci trascina dentro strade scure dai caffè già chiusi, dove passano carrozze clandestine, e la città si scopre “in frègola”. Mezzanotte ha l’effetto luminoso di una poesia breve, un dipinto notturno che per un istante ci porta altrove, e a quell’altrove ci arriviamo con il gusto di giocare con la meraviglia di notti lontanissime. Oggi in giro non ci sono più carrozze, e nessuno ha colto l’invito alla riforma delle due-virgole di Dossi, eppure la notte resta compulsivamente in frègola – sul finire dell’Ottocento fino a domani.
Gio Taverni
Fanatico – Alberto Moravia
Pubblicati nel 1954, i Racconti romani raccoglievano settanta racconti tra quelli usciti per Il Corriere della Sera e La lettura. Racconti brevi, talvolta brevissimi che, insieme, compongono un ritratto vivo e in movimento della Roma degli anni cinquanta, sospesa tra il dopoguerra e l’avvento del boom economico. Narrati in prima persona, i Racconti si nutrono di un’umanità varia che attraversa classi sociali differenti e costruisce un teatro umano di tipi e personaggi che si fanno specchio di un’Italia in profondo cambiamento. La ricostruzione da una parte, i prodromi del consumismo dall’altra, la voglia di tornare a vivere, le aspirazioni e le meschinità quotidiane: tutto questo dà vita a uno spettacolo d’arte varia capace di restituire la cifra di un paese in crescita. Fanatico è il racconto che apre la raccolta: poche pagine che narrano le disavventure di un giovane romano che si lascia convincere da due uomini e una donna ad accompagnarli a una gita fuori porta, al Lido di Lavinio per una giornata al mare; invaghito della ragazza, il pover’uomo non si accorge della trappola. Resterà, così, vittima di un maldestro tentativo di rapina. La fascinazione nei confronti della donna lo condurrà alla fine non solo a riportarla indietro con sé a Roma ma a subire l’ennesimo smacco di un brutto scherzo del destino. Trasportato sullo schermo – sempre nel 1954 – con il titolo di Peccato che sia una canaglia da Alessandro Blasetti (con la sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico ed Ennio Flaiano e interpretato da Marcello Mastroianni, Sophia Loren e Vittorio De Sica), Fanatico restituisce, intatto, il fascino di anni irripetibili, di un sottoproletariato con le sue piccole ambizioni e i suoi sogni di conquista – più grandi e più miseri – di una delinquenza tanto goffa quanto approssimata, di un’epoca che avrebbe segnato la storia del nostro paese.
Fabio Mastroserio
La disputa sul raki – Fabio Rocchi
Tra le raccolte di racconti italiani pubblicate quest’anno c’è La disputa sul raki di Fabio M. Rocchi. Se qualche anno fa, nei racconti di Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Elvis Malaj era riuscito a condensare mondi sospesi tra l’Italia dove è cresciuto e l’Albania dove è nato, quello di Rocchi è quasi un percorso inverso e complementare, da italiano che vive a Tirana, dove insegna Letteratura italiana all’Università. Le sue storie sono un’altra faccia della medaglia del lungo ponte adriatico che dalla costa est del nostro paese taglia il mare per tuffarsi dall’altro lato della terra, in Albania. Il racconto che dà il titolo alla raccolta è probabilmente uno dei più emblematici. Storia che provoca una felice ubriacatura e che affonda alle radici del celebre distillato di origine turca (?), o greca (?), o albanese (?) – già, perché è proprio l’origine del raki alla base della disputa tra nazioni che tiene vivo il racconto. Protagonista è un italiano che si è trasferito a Tirana, e da bravo figlio della rivoluzione digitale ha messo su un portale online che fa da intermediario tra clienti italiani e dentisti, chirurghi plastici e strutture albanesi che hanno costi molto più bassi di quelli dell’altra sponda adriatica. Proprio mentre gli affari sembrano andare bene, la disputa sul raki arriva violenta ad animare una serata in compagnia, e dalla disputa nasce una sfida dai toni farseschi: vince chi riesce a produrre il migliore dei raki, dimostrando con la propria ricetta la grandezza della nazione e l’origine autentica della bevanda. Non vi togliamo la curiosità di scoprire come finisce il racconto, ma a ogni passaggio la storia sorprende e trascina con i suoi odori di grappa italiana sullo sfondo e un sapore truccato d’anice.
Gio Taverni
L’orecchio assoluto – Daniele Del Giudice
Tanto nessun legame, nemmeno quello terribile che inseguivo io, si costruisce con le parole.
«C’è una buona parte di polvere che arriva dallo spazio, pulviscolo cosmico, infinitesimi granelli di comete e di meteoriti che ricadono sulla terra, così il pianeta aumenta di peso ogni anno, ogni anno la terra pesa diecimila tonnellate in più, diecimila tonnellate di polvere». I racconti di Daniele Del Giudice sono tutti costruiti attorno alle ossessioni dei suoi personaggi. E “costruiti attorno” va inteso nel senso più fisico, giacché dall’enfasi nel racconto di una qualche dettagliata competenza prende a svilupparsi uno spazio, spazio solo incidentalmente strutturato in azioni; perlopiù quello che si percepisce è un vuoto, una distanza portatrice di una strana luce, con angoli ciechi da cui emana il mistero. L’orecchio assoluto si apre con un dialogo su un treno in viaggio verso Edimburgo tra uno “studioso della polvere” e un uomo vinto, disfatto da una vita non più “ben filata e compatta”, ormai piena di buchi e in cui «da poco c’era una fessura gelida, un soffio freddo di puro ghiaccio che mai avevo avvertito prima». Discorrendo con lo studioso della polvere, l’uomo si inventa un’identità fittizia, mente immotivatamente, come irretito dalla finzione possibile, da brevi momenti di teatro che un incontro fugace con uno sconosciuto non soltanto suggerisce ma quasi impone. È tutto un cedere a forze sotterranee, a correnti invisibili: leggendo scopriamo che la musica, più di ogni altra forza, riesce a rivelare all’uomo se stesso.
«La musica era rivelazione, ma non di carattere generale, rivelava cose “per me”, era un contrabbandiere che passava di notte il borderline e lasciava al di qua ciò che non sospettavo».
Una musica intercettata casualmente da una stazione radio, e di cui non riesce a scoprire la fonte, gli ha rivelato che dovrà uccidere. In una Edimburgo umida e nebbiosa, piena di scale e passaggi nascosti alla Piranesi, intrisa di odori di nafta e di mare, “una città dove i morti si sentono, composti e presenti, non morti sguaiati”, i personaggi tra indizi, simboli e suggestioni non fanno che cercarsi, rincorrersi, attendersi, arresi a giocare la propria sorte, a rimandarsela come specchi muti nel labirinto inconoscibile della realtà.
Simona Ciniglio