Continua l’appuntamento con i Racconti della domenica a L’indiependente, la sezione interamente dedicata al racconto, curata da illustrazioni o fotografie originali. Oggi è la volta di “Cicale”, racconto accompagnato dagli scatti di Seppino Di Trana.
Se volete contribuire ai Racconti della domenica potete farlo inviando i vostri contributi a lindieracconti@gmail.com. Racconti, illustrazioni, fotografie, leggeremo e guarderemo tutto con attenzione, e i migliori contributi saranno pubblicati. Non resta che augurarvi un po’ di sano relax, mettervi comodi, e dedicarci un po’ della vostra domenica.
Cicale
di Giulio Pecci
Carlo stava urlando come un pazzo da almeno venti minuti consecutivi, prima che Federica, trovando una forza che nessun altro di noi aveva in quel momento, riuscisse a zittirlo sovrastandolo in rumore. Il solito stupido, esaltato, Carlo: così insicuro e senza argomenti che doveva sempre coprire l’assordante vuoto di cui era composto buttando fuori aria a forza, a ciclo continuo. Io ero in fondo, seduto sullo scalino basso, preoccupato che da un momento all’altro potessero spuntare fuori gli scarafaggi che abitavano le sue insenature. Avevo una visione d’insieme del vicolo, che illuminato a metà mi restituiva i volti dei miei amici dominati da ombre a tratti inquietanti. Avevo dormito poco ed il vino aveva fatto il resto, stavo quindi con la testa appoggiata al muro, rannicchiato e stretto nella felpa troppo leggera per questa fine estate. Una forte malinconia era emersa dai fumi dell’alcol che ora cominciavano a diradarsi, quella malinconia di cui ci si riesce a liberare solo con una buona notte di sonno.
Dieci minuti dopo eravamo in strada, ciondolando lentamente da una parte all’altra, senza curarci del poco traffico o dei passanti. Sui volti degli altri leggevo la stanchezza e la noia che provavo anche io, con la grande differenza che loro erano incredibilmente più bravi di me a dissimularle. Per questa mia incapacità ero sempre il destinatario di battutine sarcastiche, di frecciatine su quanto fossi sempre annoiato, scorbutico e stanco. Mi faceva sempre incazzare un mondo, perché so bene quanto in realtà loro siano esattamente come me, di quanto io diventi un capro espiatorio perfetto che li aiuta ancora di più ad allontanare quel senso di colpa comune di sentirsi così anche se non si hanno neanche trent’anni. Ero silenzioso da ormai più di un quarto d’ora, difatti mi si accostò Elisa con uno sguardo che ispirava confidenze chiedendomi a cosa pensavo: “Niente”, le risposi, “niente di che, tu che dici? Era da tanto che non ci si vedeva”. Elisa era fuorisede a Firenze, studiava letteratura in una scuola costosissima e che ti dava talmente tanti contatti che una volta uscito non dovevi far niente se non scegliere per quale giornale scrivere o casa editrice lavorare. Mi piaceva perché sapeva di essere fortunata ma aveva anche grande talento e passione, e quindi non la stava a menare troppo. Mi raccontò che la scuola era fantastica e come, a dispetto di un ambiente molto snob e composto prevalentemente da figli di papà, era riuscita a conoscere tante persone interessanti e stimolanti. A Firenze si respirava letteratura, mi disse, e d’altronde come darle torto.
All’improvviso le cicale smisero di cantare. Mi prese il panico. Non mi ero accorto fino a quel momento dell’importanza della loro cantilena che mi riempiva i pensieri, mi cullava con quel suono sgraziato ed ipnotizzante. Mi irrigidii moltissimo, chiusi la felpa fin sotto il mento e mi strinsi nelle spalle, camminando ora in modo perfettamente dritto, senza deviazioni. Mi arrovellavo sul perché avessero smesso così all’improvviso, non riuscivo a capirne il motivo, sfuggiva completamente alla mia mente, ed in tutto ciò mi ero completamente dimenticato di Elisa che continuava a starmi accanto. Aveva smesso di parlare e mi guardava preoccupata con fare interrogativo, così prima che potesse chiedermi qualcosa a cui non avrei saputo rispondere le dissi che non era niente, sentivo solo molto freddo; parve tranquillizzarsi e ricominciò a chiacchierare, con mio grande sollievo. Eravamo su Via di San Sebastiano, l’arteria principale e la più grande del paese su cui si affacciano tutti i vicoli che portano alle case antiche, praticamente uno ogni due passi, come gli affluenti di un fiume. All’improvviso le cicale riattaccarono a cantare, e io mi distesi un poco, riuscendo anche a scambiare due parole con Elisa che intanto era andata avanti praticamente da sola nella conversazione, che ora aveva assunto toni un po’ più nostalgici, mi diceva di quanto le mancasse il paese a volte, e io non potevo proprio capirla quindi mi limitai a qualche mugugno dall’aria affermativa.
Fui sorpreso dal notare quanto fossero illuminati tutti i vicoli che si affacciavano su San Sebastiano, mentre la strada principale era quasi al buio. Una scelta abbastanza curiosa. Arrivammo nel parchetto, Elisa si allontanò da me per cercare una compagnia un po’ più frizzante, ed io mi sedetti accanto agli altri sullo schienale della panchina, con i piedi sulla seduta. Ascoltavo i discorsi forzando un sorriso di circostanza e buttando lì una battuta ogni tanto. Ma le cicale avevano smesso di nuovo di cantare, ed io ero troppo preso da questo per prestare la giusta attenzione al dialogo. All’improvviso qualcosa mi sfiorò il collo delicatamente. Pensai ad una foglia od un ago di pino degli alberi che stavano sopra a noi, ma non c’era niente, non ci prestai molta attenzione e continuai la non-conversazione. Ma ecco che di nuovo mi sfiorò qualcosa, e di nuovo ancora, ne percepii non solo il contatto ma anche l’inconsistenza e la fredda temperatura: pioggia. Lo dissi ad alta voce – “pioggia” – e mi sembrò di parlare per la prima volta. Alzammo tutti il naso all’insù mentre le gocce si facevano più frequenti e pesanti e il profumo e il suono dell’acqua si impossessavano dei nostri sensi. Incrociai lo sguardo di Elisa sulla panchina opposta che mi regalò un sorriso dolce, concedendomi il suo sguardo sul mio volto, ora disteso e tranquillo. Capì di aver già dimenticato le cicale.
Fotografie di Seppino Di Trana