Racconti della domenica #3: Luglio

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Continua l’appuntamento con i Racconti della domenica a L’indiependente, la sezione interamente dedicata al racconto, curata da illustrazioni o fotografie originali. Dopo il racconto numero zero “Caffè da Berlino“, accompagnato dagli scatti della città, “La camicia”, con le illustrazioni di An, e “La cucina luminosa”, racconto illustrato da Abise Mūru Kai, oggi è il turno di Giuseppe Porrovecchio con “Luglio”, insieme alle fotografie di Susanne Maude.
Se volete contribuire ai Racconti della domenica potete farlo inviando i vostri contributi a lindieracconti@gmail.com. Racconti, illustrazioni, fotografie, leggeremo e guarderemo tutto con attenzione, e i migliori contributi saranno pubblicati. Non resta che augurarvi un po’ di sano relax, mettervi comodi, e dedicarci un po’ della vostra domenica.

 

Luglio

di Giuseppe Porrovecchio

 

Ci immagino ognuno in un angolo, perfettamente immobili nell’interpretare al meglio la parte che ci è stata assegnata. Lei gettata su un tavolo rettangolare di legno, la testa appoggiata alle mani e gli occhi mezzi chiusi, mentre passa da un gioco a premi a un film d’amore a un talk show di politica, il corpo avvolto in una lurida vestaglia da casa. Mio padre rigido, le spalle perfettamente in fuori, sfoglia un catalogo di francobolli sul piano di vetro circolare mai fissato. Si muove e impreca. Da lui è giorno, per mia madre ora di andare a letto. Dall’altro lato, uno di fronte all’altro, io e mio fratello, costanti, una qualunque ora: una mano nelle mutande e l’altra sul joystick, due videogiochi diversi. Il nostro lessico famigliare è il silenzio. Seduti a cena, ci alziamo a turno appena ciascuno finisce quello che ha nel proprio piatto. Carne ai ferri, verdure saltate, insalata condita con l’aceto. In sottofondo il telegiornale, la cronaca nera. Di solito è papà l’ultimo ad alzarsi, mangia più lentamente e alla fine d’ogni pasto consuma due frutti in base alla stagione: cachi in autunno, molli dall’interno gelatinoso, pere in inverno e pesche alla fine della primavera. D’estate una fetta d’anguria che non si cura di privare di tutti i semi. Io ho preso la stessa abitudine di ingoiarli. Usa il coltello rosso, con la lama curva e nel gesto solitario di srotolare la buccia sul tovagliolo io ci ritrovo tutta la mia vita di adesso. Mamma torna a sedersi, ne chiede un pezzo. Pulisciti la bocca, dice. A volte, quando si ricorda di comprarli, inserisce un quinto frutto, un’eccezione, verso l’inizio di settembre: il fico d’India. Ne va matto. Io non riesco nemmeno a tenerlo tra le mani senza riempirle di spine – le stesse che mi graffiavano quando da bambino correvamo con le biciclette per i sentieri di campagna a raccogliere le more già mature – e allora lui, più attento, si propone per occuparsene. Grazie, ma non mi piace il gusto che ha. Mangialo che è buono, dice. Non mi piace molto. Ad Ostuni lo mangiavi sempre, ora hai cambiato idea? si inserisce mia madre. Mamma ma quando andavamo ad Ostuni io avevo due anni. Almeno sei, chiude. Ostuni, mi immagino una strada segnata dai fichi e da piante arse dal sole ma la verità è che non ne ricordo nulla. Le case, il mare, il tempo. Zero. Eppure è la vacanza che mi ha segnato la vita. Spiego meglio. Durante quell’estate stetti di un male incredibile, mia madre racconta che qualunque cosa mangiassi era destinata, puntualmente, ad essere vomitata, il mio volto passava dal giallo canarino al verde pisello ad un celeste tenue e finii per dimagrire di svariati chili tanto da dover esser ricoverato e alimentato con una flebo per un paio di settimane. Non importa quanto tempo sia passato, la mia vita inizierà sempre da quel momento per mia madre, persi gli anni anteriori alla tragedia, ogni occasione buona per ricordarmi quanto la mia risurrezione sia un segno del fatto ch’io debba mangiare sempre di più. Come sei magro, ma a Milano mangi? La versione in dialetto è quella di mia nonna, non inserita nel ring iniziale in quanto, essendo l’unica tra i nonni ad aver conosciuto, mi è sempre stato difficile avere con lei quel rapporto di insopportazione che si riserva a qualunque altro parente. Nella cronologia delle morti il primo è stato il nonno materno, in un’epoca in cui io ero ancora un futuro molto vago; poi è toccato alla nonna paterna ed io mi ero appena trasformato in un’idea più definita; il nonno paterno ha invece avuto modo di conoscermi, avevo due anni e una capacità mnemonica non sufficientemente sviluppata. Su di loro mai nessun racconto, nessun aneddoto. Leggende di fantasmi. Per incontrarli, da idea qual ero, avrei dovuto sapere cosa il futuro mi avrebbe riservato e, sapendolo, sforzarmi a pensarmi anticipatamente come chi immagina se stesso in un dramma futuro e da lì provare ad incarnarmi in qualcun altro, qualcos’altro da ciò che sarei nato anni e anni dopo.

 

Susanne Maude 2017 ©

 

Se l’alfabeto di mio padre passa per la frutta e quello di mia madre dai programmi tv, quello della nonna attraversa tutta la sfera conoscibile del cibo. Si parte dalla A di alloro, rubato dalla pianta della signora del piano terra colpevole di esser cresciuto oltre la ringhiera che lo delimita dalla strada – scendi a prendere due foglie – e si passa per la M di maionese, le sue iniziali. Io sono andato a scuola dalle suore fino alla quinta elementare. Dal lunedì al venerdì intera giornata, il sabato mezza. Uscendo di pomeriggio, venivo riaccompagnato a casa da lei che mi proponeva come merenda: uovo sbattuto, pane e olio, pane e pomodoro. I giorni in cui mio padre non era in casa, compariva una nuova proposta, quella preferita da entrambi: pane e maionese. Che trasgressione! Che delizia! – se lo scopre tuo padre ci riempie di mazzate, a me e a te. Ah, papà. Papi. Papino. Che vuoi? risponde. Mi aiuti a far la valigia che sei più bravo? Devi metterci le magliette che sono sul letto e i pantaloni che ho appeso all’armadio di mamma. Tu fai sempre tutto all’ultimo secondo! Inizio a portar giù le altre nel frattempo, mettici anche le scarpe bianche. Con quale macchina partiamo? Quella di papà. Una vecchia Fiat Tipo nera che lasciata al sole diventava una lamiera incandescente, il tetto mangiato, la prima cosa da fare una volta saliti era abbassare il più velocemente possibile i finestrini riuscendo a tenere in mano la manovella bollente e tirar su le ginocchia per mettere i piedi sul sedile. Quella di mamma una Ypsilon verde che qualche anno dopo avrebbe finito per accartocciarsi contro un muro. La carico io. Ma dove andiamo, avete deciso? A Ostuni. Come a Ostuni, di nuovo? Eddai, stai zitto, quando arriviamo vedi. Accendo l’aria condizionata? No, lascia aperti i finestrini. Ma così non si sente la musica. Chiudi che questa canzone mi piace, insiste mamma. Luglio col bene che ti voglio vedrai non finirà, ai ai ai ai. Luglio m’ha fatto una promessa, l’amore porterà, ai ai ai ai. La consumiamo questa cassetta, d’estate.

 


Giuseppe Porrovecchio è nato tra le montagne abruzzesi sotto il segno dei Gemelli, casa è oramai diventata quella città in piena che è Milano. Scrive racconti, di teatro e scatta foto perché una parola nasce sempre da un’immagine. E viceversa.

 

Susanne Maude è una fotografa e scrittrice freelance finlandese con base a Turku, parte del collettivo Grryo.

Instagram susanne.maude@gmail.com

 

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