Racconti della domenica #1: La camicia

Secondo appuntamento con i Racconti della domenica a L’indiependente, la sezione interamente dedicata al racconto, curata da illustrazioni o fotografie originali. Dopo il racconto numero zero “Caffè da Berlino“, accompagnato dagli scatti della città, oggi è la volta de “La camicia”, con le illustrazioni di An.
Se volete contribuire ai Racconti della domenica potete farlo inviando i vostri contributi a lindieracconti@gmail.com. Racconti, illustrazioni, fotografie, leggeremo e guarderemo tutto con attenzione, e i migliori contributi saranno pubblicati. Non resta che augurarvi un po’ di sano relax, mettervi comodi, e dedicarci un po’ della vostra domenica.

La camicia

Per l’occasione ho messo gli stivali scuri che ti piacevano tanto, e ho stirato una camicia (già, ci crederesti?). Voglio starmene in disparte quando sarà l’ora, sullo sfondo, io e il mio senso di colpa che sale lungo le ossa, lontano da tutte quelle lacrime di circostanza, perché loro non sanno – oh, loro non ne hanno la minima idea – di come ci si possa sentire da questo lato della barricata, quando tutto è perduto. Ho indossato la camicia facendo attenzione a non macchiarla col caffè, uscendo ho preso le mie quattro cose, le chiavi di casa, il portafoglio (a che mi servirà chi lo sa), e una nostra vecchia fotografia (te la ricordi?, brindavamo in un bar, tu avevi i capelli bagnati e io la mia solita espressione cialtrona), poi ho messo in moto l’auto e acceso lo stereo a un volume disumano, che solo tu potevi sopportare. È stato in quel momento che ho tirato un’occhiata al lato del passeggero e mi è salito come un latrato dentro lo stomaco, allora per la prima volta dopo tanto tempo ho invocato la divinità e gli ho chiesto il conto, ma non ha risposto nessuno. Così ho pensato a quella mattina, l’ultima mattina.

Come al solito non avevi asciugato i capelli anche se fuori si stava preparando uno di quegli acquazzoni che affogano la città a inizio primavera, ma a te non importava – non è mai importato che piovesse o ci fosse il sole, tu stavi al mondo come qualcuno che ama i tiri di dado del caso: la luce, la pioggia, il vento, sono soltanto delle occasioni di bellezza che diventano invece ossessioni per gente metereopatica come me. Per un quarto d’ora non hai fatto altro che cambiarti d’abito, rigorosamente alla larga da uno specchio, finché non ti sei rifugiata dentro quella tua camicia a quadri che era come una coperta di Linus per te. Se solo avessi saputo che era l’ultima volta che ti guardavo non ti avrei allontanato quando mi sei venuta accanto alla ricerca di una carezza, e ora non sarei qui a lanciare una moneta da dieci cents per aria chiedendo al caso che ne sarà del futuro, semmai rivedrò i tuoi occhi nell’al di là, se esiste davvero questo oltremondo, e se un giorno potrò rimediare. Cazzate.

B – T, illustrazione di An

Mi avevi semplicemente chiesto un passaggio in auto, una cosa da poco, ma io ho sbuffato, ti ho detto che non avevo nessuna voglia di guidare nel traffico del mattino mentre si stava preparando un acquazzone, che eri abbastanza emancipata per fare tutto da sola, uscire di casa, fare i tuoi servizi e tornare. Ti ho detto che eri il perfetto prodotto di un’epoca, il prototipo dell’user Uber contemporanea figlia dell’individualismo di snapchat, e come tale dovevi comportarti. Tu mi hai fissato con disprezzo e hai aggiunto che io invece rappresentavo il prototipo dell’idiozia infarcita di stereotipi. Ti ho sorriso e ti ho tirato per un braccio accanto a me, ma ti sei divincolata con sprezzo, hai detto solo “ho da fare su snapchat, non mi aspettare”, così te ne sei andata lasciando un vuoto che sul momento non avevo avvertito.

Solo più tardi, mentre camminavo per la città in cerca di cibo, mi è arrivata la telefonata e ho sentito quel vuoto. Ho corso per fiondarmi dentro un bus al volo, e ricordo poco e niente da quel momento in poi: so che non aveva più piovuto e le promesse del mattino si erano scontrate contro un sole caldo che mi batteva sul collo fino a sfinirmi; ricordo una vecchia signora sul bus che ripeteva al telefono con la figlia di come tutto fosse pronto per la festa, ma proprio non le riuscisse di trovare piatti intonati al colore che aveva scelto come tema della serata; ricordo la tua camicia a quadri macchiata di sangue, il volto cupo di un dottore, il tuo telefono ancora intatto, le notifiche di snapchat, il mio respiro che ha iniziato ad affannare, una certa canzone pop che suonava in un bar in quella sera spettrale, quando ho realizzato che non ti avrei più visto, e che questa terra è così sola e desolata, anche se siamo in mezzo alla folla, nel cuore della città, a perderci negli sconosciuti pensieri altrui per trovare salvezza dai nostri.

Rue de Flandre, illustrazione di An

È andata così finché un misto di dolore e rabbia non mi ha trascinato via, verso casa. Ho iniziato a focalizzarmi ossessivamente su di lui, l’uomo che ti ha investito, l’ho chiamato “nero di merda” più volte, poi ho pensato a te e a come mi avresti rimbrottato per quell’improvviso sussulto di pseudo-razzismo, ma non riuscivo a liberarmi di quell’epiteto e continuavo a ripeterlo ad alta voce: nero-di-merda-nero-di-merda. Sì, lo so, anche la mia pelle è scura, eppure non potevo fare a meno di sentire risalire quella rabbia che bolle dentro il corpo, quella rabbia che soffoca e cerca sfogo nelle parole. Non so come sia successo di preciso in quella notte orrenda, ma a un certo momento – mentre albeggiava – il sonno è venuto a prendermi e ti ho sognato: era estate, eravamo sulla sabbia, e tu mi hai lanciato contro un libro con violenza urlando, “è tutta colpa tua”. Ho aperto gli occhi, e solo allora ho pianto, come non piangevo da tempo, invocando il tuo nome a vuoto e chiedendo perdono.

Ora sono qui, a salutarti per l’ultima volta senza che tu sia presente, in questo rituale umano straziante che sembra dover essere una consolazione per tutti noi, ma non lo è mai. Ora sono qui ad ascoltare il commiato generale ai tuoi occhi, coi miei stivali scuri e la camicia stirata malamente, ma in fondo a che serve tutto questo se non posso più aspettarti, se non potrai più dirmi che avrei potuto almeno lavarla la tua camicia, prima di stirarla.

Exit mobile version