Racconti della domenica #0: Caffè da Berlino

A L’indiependente siamo affezionati ai racconti, e con la prima domenica di Luglio torniamo a dare uno spazio più importante all’arte delle short-stories. Lo facciamo con una sezione interamente dedicata al racconto, curata da illustrazioni o fotografie originali, che accompagneranno la lettura. Da oggi la domenica sarà la nostra giornata dedicata ai racconti, e per inaugurare lo spazio qui potete godervi la lettura di “Caffé da Berlino”, accompagnata dagli scatti della città.
Se volete contribuire ai Racconti della domenica potete farlo inviando i vostri contributi a lindieracconti@gmail.com. Racconti, illustrazioni, fotografie, leggeremo e guarderemo tutto con attenzione, e i migliori contributi saranno pubblicati. Non resta che augurarvi un po’ di sano relax, mettervi comodi, e dedicarci un po’ della vostra domenica.

Caffè da Berlino

 

Le ragazze bionde della scuola di traduzione salivano dopo la fermata di Matej, e scendevano prima. Accadeva solo perché Matej doveva percorrere tutta la linea verde che da Uhlandstraße a Warschauer, e mentre attraversava l’Oberbaumbrücke da sotto, calciava i sassi e sbuffava. Quando da lontano vedeva l’insegna del Kaffee Artisan c’era sempre già qualcuno che aspettava, a qualsiasi ora. Apriva, non accendeva le luci che già qualcuno si sedeva e chiedeva un caffé:

– Devo ancora pulire la macchina – gli diceva mentre cercava l’interruttore generale.
– E tu allora dammelo sporco – rispondevano, di norma, da quando lo zio era morto e glielo aveva lasciato.

Lui mica voleva fare quello. Solo che poteva aiutare i suoi, ripagarli dell’inutile sforzo per farlo laureare in Arte, e crescere la piccola cugina Marja, rimasta orfana. Poi c’erano i giorni di pioggia e i turisti che si rinchiudevano nei musei. Dalla grande vetrina passavano solo ombrelli. Non gli piaceva servire the caldi o smoothies agli americani, non erano nemmeno nel menù perché a quello ci pensava Abise, l’indiano lì a fianco che, per via della sua fede islamica, non serviva alcol e per lo stesso motivo, non appena erano cominciati gli attentati, si era ritrovato le vetrine spaccate. E poi l’odore che emanava la pelle di quei corpi bagnati e sudati e che si attaccava alle coperture dei divani. Kristina, una vecchia ancora in forma, pronta, gli si avvicinava al bancone e gli sussurrava:

– La senti la puzza che fanno?

E dal bancone si coprivano la bocca con la mano per nascondere le risate. Gli mancava Kristina, se n’era andata anche lei, al sole, in Italia, con i soldi che aveva fatto su AirBnb. Ogni tanto Matej lasciava Marja al bancone, e il bar si riempiva di fiori. Sui tavoli, in bottiglie che toglieva dal riciclo e riutilizzava come vasi. Margherite rosa che le ricordavano qualcosa, del suo passato malinconico ma poi felice come i suoi anni. Le lasciava cambiare musica, quando si metteva a studiare in un tavolo all’angolo, e le portava una Coca Cola quando vedeva che l’aveva finita. Le ragazze della scuola di traduzione erano diverse da Marja, anche se avevano la stessa età. Matej ci pensava, tutte le mattine e ogni tanto durante il giorno. Guardando fuori dalla finestra mentre l’S Bahn non smetteva mai di passare.

 

 

Il bar era cambiato, come il quartiere. Quando suo zio lo aveva aperto Kreuzberg era un posto ancora selvaggio, gente per Kristina e Ubaldo, il suo primo marito italiano defunto qualche anno prima. Un pomeriggio, dopo un anno di gestione, Matej l’aveva svuotato di tutte le cose che aveva messo suo zio per arredare il bar. Aveva buttato fuori tutto, insieme a Marja, aveva spaccato i quadri, la porta e finito l’alcool che sua cugina non aveva già svuotato. Avevano portato dentro altre cose prese fra la casa dei nonni – mobili dell’epoca polacca, di legno massiccio e i vetri tutti decorati a freddo –, il mercato di Charlottensburg – una serie di tavoli scolastici verniciati e mezzi rotti – e quello di Treptow. Anche Ubaldo, Kristina, Abise e tutti gli altri avevano portato qualcosa di loro, completando quel clima di disordine da patchwork un po’ gipsy che aveva dato al Valentino quella sua aria così speciale. Un po’ di casa, per ognuno, anche per chi non l’aveva più.

Solo un angolo, Marja e Matej, non avevano voluto toccare di mutuo accordo. La parte a fianco al bancone, dove lo zio Anja aveva messo un piccolo divanetto, fatto per lo più di cuscini e materassi. Avevano lasciato nella stessa posizione la litografia di Rodolfo, che quando zio Anja si sedeva la sfiorava con la testa. Si metteva con la schiena appoggiata al muro, nei momenti in cui non aveva nessuno da servire, e guardava fuori dalla vetrina con una tazza di caffè e una sigaretta, in attesa di qualcosa, forse di Zentia, la sua ex, con cui aveva perso una parte importante di sé.

Ogni tanto Matej si sedeva lì anche lui, aspettando che arrivasse qualcosa, anche solo le studentesse di traduzione con i loro capelli biondi e lo zainetto pieno di libri. Guardava poi Marja arrivare dai corsi, la salutava con un sorriso e ritornava a lavorare. Perché in fondo gli bastava essere lì, anche se una casa nessuno di loro, l’aveva più.

kaffeekultur, FP 2017©

Exit mobile version