Non c’è bisogno di storie complesse per entrare dentro alla parte oscura con cui alcuni scrittori devono fare i conti, anche se questi ultimi anni, forse per il buio che c’è fuori, nella vita vera, non sembrano averne bisogno. I fiori malati continuano a fiorire, e noi a raccoglierne i petali, e se le esistenze seguono il loro corso, amandosi e perdendo il loro tempo, alcune tracce rimangono impresse in parole che sono difficili da dimenticare. Ci sono stati periodi in cui il male, molto meno sottilmente di oggi, sembrava scavare solchi nelle rughe dei suoi poeti, come a richiamare un’abitudine a non nascondersi o, almeno, a non lasciare soli chi cercava di scontare il conto dei propri demoni in solitudine. Era una voce, quella dell’interiorità e del dolore, che non voleva dimenticarsi degli altri anche quando quel male, fuori, negava libertà e passioni. Nel complesso ritorno a sé ci sono macerie che non possono essere raccolte e non servono a erigere nuovi palazzi, ma possiedono la stessa capacità di sedimentarsi e fiorire. Spesso non ci si accorge nemmeno di sentirle dentro e non sono mali del secolo, ma semplicemente una casualità in cui quello che si legge è quello che si sta sentendo in quel dato momento, quando spesso basta non lasciarsi da soli.
Il fatto che il nemico si conosca, o si possa vedere, non significa che sia meno duro da affrontare. Spesso dare un nome e un volto non fa altro che alimentare il potere di chi ti fa sentire schiavo. Non a caso una delle ultime grandi generazioni della nostra letteratura è nata e cresciuta in quella dimensione, assistendo alla duplicità di questo fenomeno che, partendo da fuori, arrivava a incollarsi alle parti più interiori, una volta che il nemico, quello dei giornali, viene battuto. È forse la mancanza dei grandi drammi della storia che, solo superficialmente, crediamo di non attraversare a rendere la letteratura di oggi un po’ più legata a situazioni d’appendice rispetto al caos che silenziosamente sembra muoversi tutto attorno. Difficile quindi, vedersi rappresentati nelle frasi di qualcuno, se non si capisce nemmeno che la guerra, là fuori, non è mai finita. Le pagine oscure del novecento, che fossero fra le due guerre o fra le prese di potere più recenti, sembrano più adatte al dialogo con l’altro quasi perché impossibilitate a mentire o a mascherarsi, frutto di un’incombenza del domani e un’insicurezza su quanto lo si sarebbe vissuto. È un sentimento transitorio quello che riempie le pagine di Disegni sui muri di Julio Cortázar e dedicato ad Antoni Tàpies, che di male se ne intendevano, tentativo di rappresentare, appunto, i sentimenti e le passioni di un Cile sconvolto dalla dittatura di Pinochet. Qui, nella sua necessità di esistere libero, il protagonista si ritrova sconvolto quando si accorge di non essere, effettivamente, più solo a vivere il suo dolore:
Tante cose cominciano e forse finiscono come un gioco. Immagino sia stata una felice sorpresa per te trovare il disegno accanto al tuo. Lo hai attribuito al caso o a un capriccio e solo la seconda volta ti sei reso conto che la cosa era voluta e allora hai guardato a lungo, sei anche tornato più tardi a guardare. (…) Lo stesso tuo gioco era cominciato per noia, non era veramente una protesta per come andavano le cose in città, il coprifuoco, il divieto minaccioso di affiggere manifesti o di scrivere sui muri. Semplicemente ti divertiva disegnare coi gessi colorati (…) Poco importava che non fossero disegni politici, il divieto abbracciava tutto e se un bambino avesse osato disegnare una casa o un cane li avrebbero ugualmente cancellati fra minacce e insulti. In città ormai non si sapeva bene da che parte stesse veramente la paura, forse per questo ti divertiva dominare la tua e scegliere ogni tanto l’ora e il luogo adatti per far un disegno. Non avevi mai corso pericoli perché sapevi scegliere bene e nel tempo che passava fino all’arrivo dei camion della pulitura si apriva per te uno spazio come più pulito dove quasi trovava posto la speranza. (…) Una volta sola hai scritto una frase, con gesso nero, anche a me fa male. (…) Quando comparve l’altro disegno accanto al tuo hai quasi avuto paura, all’improvviso il pericolo raddoppiava, qualcuno si era deciso a divertirsi come te sull’orlo della prigione, o peggio, e questo qualcuno, come se non bastasse, era una donna. [Tanto amore per Glenda, J. Cortazár, Guanda, 2009]
Come Cortázar altri, prima, trovandosi smarriti davanti alle pieghe della storia, e al suo dolore silenzioso, si sono trasformati in narratori, non solo per necessità interiore o per trovare quelle ragioni segrete per cui si muovono le cose. Era più una questione di mettere le proprie armi al servizio dei più fragili del cui esercito, spesso, facevano parte anche loro. Primo Levi, e quel male da cui davvero non si riprese mai, ma anche i Moravia, le Morante e i Calvino, attenti osservatori fra contemporaneità e passato, tracciavano quella via fondamentale di chi non dimentica e non può, inevitabilmente, allontanarsi dal giudizio sui tempi che si vivono. I sommersi, gli annoiati, i personaggi de La Storia e gli scrutatori sono l’inevitabile confronto di un autore con le derive personali del suo tempo:
E come chi,tuffandosi nell’acqua fredda, s’è sforzato di convincersi che il piacere di tuffarsi sia tutto in quell’impressione di gelo, e poi nuotando ritrova dentro di sé il calore e insieme il senso di quanto fredda e ostile è l’acqua, così Amerigo dopo tutte le operazioni mentali per trasformare dentro di sé lo squallore della sezione elettorale in un valore prezioso, era tornato a riconoscere che la prima impressione -di estraneità e freddezza di quell’ambiente- era la giusta. [La giornata d’uno scrutatore, I. Calvino, Einaudi]
Il male dentro. Le prime generazioni cresciute nella pace si sono così trovate a non avere più nemici dichiarati da combattere, fra il boom economico e le pretese di una vita migliore. Non che tutto si fosse fermato. La guerra del Vietnam, il maggio francese fino agli anni di piombo, l’infanzia dei nostri genitori, sono stati gli ultimi segni del fatto che i nemici non scompaiono mai. Si sono poi diluiti, scomparendo dalle rotte letterarie, non appena il male si è trasformato in interiorità nevrotiche e fragili, e gli eroi di Hemingway hanno assunto dimensioni meno epiche, squilibrate prede di un progresso rothiano, perché la guerra di tutti i giorni è più sottile, meno definitiva della trincea ma con le stesse vittime. La duplicità dei personaggi di Cortazár ritorna, forte e risoluta, nelle repressioni di tutti i giorni, quando da affrontare non c’è più l’oscura ombra della dittatura ma quella di una vita che limita gli apici, in cui tutto è già conquistato e solo la caduta sembra poter reclamare una dimensione poetica. E, così, Il muro sartriano di Ramon Gris, che già muoveva quei semi di un male che si insidiava nell’interiorità, si è tramutato nel protagonista delle brevi interviste di Foster Wallace, dei ricercatori in carrozzina del nuovo sacro Graal capace di distruggere chi lo guarda di Infinite Jest. Ultime tracce di una guerra che distrugge i possessori coscienti del proprio male:
Voglio dire che certe persone sono terrorizzate perfino all’idea di infilare l’alluce nel vero rimpianto o nella vera tristezza, oppure di arrabbiarsi. Questo vuol dire che hanno paura di vivere. Penso che siano imprigionate in qualcosa. Sono di ghiaccio dentro, da un punto di vista emotivo. Il perché questo avvenga. Nessuno lo sa, Amore. Certe volte viene chiamata soppressione. [Infinite Jest, D.F. Wallace, Einaudi, p. 921]
L’ingranaggio si è poi bloccato, o si è nascosto bene, sublimandosi in drammi borghesi e personali, che dimenticano spesso il generale per addentrarsi nel solo particolare. Nell’immaginario di Franzen, in quello de La Ferocia di La Gioia, la ricchezza di particolari mostra uno spettro di sentimenti e individualità amplissimo e profondo, certo, ma sempre legato a certe strutture definite e da cui è difficile fuggire. È, dopotutto, un sentimento che condividiamo, questo non potersi immedesimare in qualcuno di sconfitto, fra la necessità di successo e quella di apparire forti agli altri, a rendere gran parte della letteratura come inefficace di narrare il tempo che viviamo. Sembrano diventati altri i modi per rappresentarsi, con la pretesa che siano definitivi e non solo frutto di quella fantasia scrittorica che, per secoli, ci ha reso meno solitari. In un mondo che ha perso tutta la sua epicità, sopraffatto dalle tecnologie e dalla sperimentazione, scoprirsi umani sembra essere quasi un moto rivoluzionario. Scavare così a fondo dentro di sé, e raggiungere le parti più remote, tanto da costituire una sintomatologia dell’epoca, ormai, sembra quasi impossibile. Questo male è tutt’altro che scomparso ma, noi, rischiamo di non poterlo comprendere.