Quella solitudine dietro alla musica elettronica

Yakamoto Kotzuga

È sempre stato come risvegliarsi, il nostro momento, davanti a chi puntava il dito contro muri immaginari e diceva che non c’era più nulla da dire, o a chi di fianco a noi si muoveva con gli occhi chiusi spillando sudore in un club senza luci. Non sapendo come raccontarci, per un’impossibilità nel tradurci in cifra moderna e senza neppure le condizioni per farlo, accettando questo silenzio da caos metropolitano e da solitudini meno moderne di quanto appaiano, abbiamo iniziato ad ascoltare. Le parole colpevoli e quelle mai dette, o a chi basta il ritmo dei bassi per riuscire ad allontanare il mondo fuori. Alcuni hanno recuperato le tracce seminate qua e là per poi sprofondarci e risalire, insieme ai tanti che si tiravano indietro. Se è vero che ci vogliono più o meno dieci anni perché l’avanguardia sconfigga la quotidianità, per poi sostituirla, è probabilmente vero che quello che era il movimento delle generazioni, dai consumatori di rock’n’roll alle crisi di fine secolo grunge, quello di oggi, sia quello più preparato a far propria la musica elettronica. È un processo già in atto, e ormai completato, soprattutto in relazione alla sua componente più commerciale – quando iniziano ad arrivare i soldi la magia un po’ finisce, e il ritorno all’analogico ne è l’opposizione più arrabbiata – anche se profondamente diverso da quando la spina del primo synth veniva collegata. Perché sono le generazioni a essersi evolute in maniera indistinguibile, senza divisioni irrecuperabili, senza ideologie o certezze, lo scarto fra generi si è dissolto così come quello della sua fruizione. Non solo musicalmente, ma quella è un’altra storia.

I nervi che riesce a toccare la musica elettronica sono quelli lasciati scoperti da tutto il resto. In qualche modo è espressione e causa della sua stessa solitudine. Per uscirne devi entrare in un’altra. È il gioco necessario per uscire di sé. La solitudine di chi suona e compone, la cui possibilità creativa si ingrandisce sempre di più, potendo prendere e catalogare ogni cosa, e quella di chi ascolta. Destruttura quello che c’è già, la chiusura dentro un mondo fatto di schermi e solo virtualmente sociale. Raggruppa quello che non c’è più, i rapporti con le persone, rinchiudendo gli adepti di questo nuovo movimento nei suoi posti, riempiendo gli spazi lasciati vuoti dal movimento della grande città e dalla staticità di quelle più piccole. Una musica differentemente silenziosa, che blocca alcuni ingranaggi ed esprime ciò che serve in quel momento, un presente pressante che necessita di finire in stand by per un po’,rimandando a più tardi il confronto con se stessi. Ma che, allo stesso tempo, accompagna la stessa discesa negli inferi del chi sei. Una richiesta di sperimentazione che contrasta, non a caso, l’immobilità completa di tutto ciò che c’è intorno. Anche se qualcuno magari non la sente, anche se qualcuno non ci vuole credere e quando si ritrova nel club si sente bene ed è l’ultima cosa a cui potrebbe pensare, ed è probabilmente perché, appunto, va a coprire quello che, ancora, non è chiaro.

Una richiesta più che una necessità, la stessa che dovevano pretendere i giovani di tanto tempo fa, che avevano altre cose su cui contare per riempire il silenzio che tutti, presto o tardi, si sarebbero sentiti intorno, e avrebbero provato a colmarlo in modo diverso. Così si evolvono le sperimentazioni e si fanno sempre più concrete, la cui portata ci è ancora sconosciuta, così si modifica il modo di fruirne, che ancora è un complicato miscuglio di incertezza e sentimentalismi poco sbilanciati. Non a caso facciamo fatica a considerare un concerto elettronico al pari di uno classico, e lo sforzo sulla consolle ancora ci appare minore rispetto a quello di una band. Ma il sudore è un metro di giudizio soggettivo come tutti gli altri. Tutto questo mentre fuori dal nostro paese tutto questo si sta già affermando e rendendo forte e sana la propria costituzione. Noi, così appassionati dalle parole, così tanto da non poterne più scrivere, davanti a qualcosa che non capiamo, spesso, rischiamo di chiuderci e rimanere indietro. Chiusi, proprio in quell’universo in cui la differenza tra concerto e discoteca ancora non sappiamo distinguerla, chiediamo uno sconto al tempo per poter capire e saperlo come affrontare, mentre non ce n’è davvero più tanto, ed è inefficace comprendere, quando basterebbe provare a capirsi. E non è nemmeno detto che sia un male, lasciarlo nella sua componente più sotterranea, scoprirlo poco a poco, e non bruciarselo come le storie che conosciamo già troppo. Credere che, però, non provenga da una necessità sarebbe come ucciderlo prima che si possa muovere, considerarlo musica solo per ballare, poi, non ci va molto lontano.

C’è tanto da fare e da scoprire, come all’inizio di ogni percorso, individuale o generazionale che sia. Mentre tutti gli altri campi, che da sempre hanno detto cosa si provava ad essere umani in un dato momento, annaspano in un mare in cui non più sono capaci di rinnovarsi e andare contro corrente, la musica elettronica, (e, per una volta, anche la nostra), è una novità da non perdere. È troppo facile confinarla da una parte mainstream o in una troppo di nicchia, e sarebbe un limite, o, soltanto, l’affermazione che il problema non sono mai stati gli altri, ma solo la nostra mancanza di voglia di scoprirci, per una volta, al centro di qualcosa.

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La foto in copertina è di Alessia Naccarato

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