Santiago de las Vegas è una cittadina che si trova sul lato occidentale di Cuba, luogo che offrì i suoi natali a uno degli scrittori italiani più internazionali del Novecento: Italo Calvino. Resta poco sull’isola, Italo, del resto uno con un nome così è destinato a rientrare in Italia e trascorrervi la propria giovinezza.
Approcciarsi a uno scrittore come Italo Calvino non è facile: non ha l’immediatezza di un narratore classico, è una sorta di grande Borges italiano, o forse dovremmo dire che Borges è un grande Calvino sudamericano. Calvino è capace di parlare della sensazione dell’innamoramento con un capitolo che si chiama Mitosi, che ci ricorda la biologia piuttosto che la letteratura: “c’è una cellula, e questa cellula è un organismo unicellulare, e quest’organismo sono io, e io lo so, e ne sono contento”. D’un tratto questa cellula così felice, diventa curiosa: è un vero dramma perché scopre il vuoto, “ecco vedete che l’innamoramento era già allora lancinante passione per il fuori di me, era il divincolamento di chi spasima per scappar fuori da se stesso così come io andavo allora rotolandomi nel tempo e nello spazio innamorato da morire”. Il capitolo successivo, Meiosi, racconta l’incontro con Priscilla Langwood, e usa questo linguaggio oscuro più prossimo alla chimica e alla biologia che non ai romanzi; l’amore è “i rapporti che si stabiliscono tra le proteine mie e quelle di Priscilla”, che d’un tratto nella lunga analisi che mette in rapporto i due organismi pluricellulari prende vita, “quando allungo il mio collo e ricurvo sul tuo e ti do un leggero morso”: è la vita al microscopio. “Il rischio che abbiamo corso è stato vivere: vivere sempre”, si apre così l’ultimo capitolo della seconda parte di Ti con zero. Dico che Calvino è ostico proprio per queste ragioni, c’è un linguaggio occulto che lo circonda, lo anima e ce lo fa amare: non c’è l’immediatezza di un narratore di racconti, è quasi simbolista anche quando non tenta di esserlo.
Ne Le città invisibili, per esempio, Calvino fa giocare il lettore negli intervalli in cui ci sono lunghi dialoghi tra Marco Polo e l’imperatore Kublai Khan. Nel mezzo ci sono le città: tutte cifrate e indecrifrabili insieme. Da perdersi, dentro la città, da rinnegarle, cacciarle via, correre in altri luoghi più reali: d’un tratto ti assale una furia così prepotente di fronte a tutte queste assurde città che hai voglia di imbarcarti con un borsone in spalla per vedere le città reali che trasudano vita vera. Come quando ti perdi dentro Se una notte d’inverno un viaggiatore: no, non vuoi perdertici dentro sul serio, non vuoi giocare con lo scrittore a essere il lettore. Il tuo ruolo, quello di lettore, non è mica interagire: tu devi leggere, e andare avanti, cosa diavolo vuole Italo Calvino quando mobilita il lettore a partecipare? Perché lo fa?
Poi arriva il signor Palomar in silenzio. È in spiaggia, Palomar, e incontra una donna in topless: per non essere importuno volge lo sguardo altrove, non vuole disturbarla; poi pensa che volgendo lo sguardo gli sembra di dare troppa importanza a un seno nudo, sta creando un tabù e non vuole; allora decide di guardare tutto indistintamente, integrare il seno nudo al paesaggio: le onde, gli scafi, i capezzoli; però poi è giusto considerare questa donna come un qualsiasi oggetto del paesaggio, un seno come uno scafo?, e allora forse è meglio soffermarcisi su quel seno nudo, dargli un’importanza, apprezzarlo: in fondo è un essere umano quello che ha davanti, Palomar: “ma appena lui torna ad avvicinarsi, ecco che lei s’alza di scatto, si ricopre, sbuffa, s’allontana con scrollate infastidite delle spalle come sfuggisse alle insistenze moleste d’un satiro”. Arriva Palomar e incontri tre pagine intere di genialità narrativa diretta. Se incontri il racconto giusto di Calvino lo scopri maniacale nell’essere geniale, come un furetto di specie.
Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.
Tra le avventure de Gli amori difficili non è facile sceglierne una: ogni storia è la fotografia di un piccolo mondo che si apre allo sguardo del lettore. Come accade ne L’avventura di un fotografo che cerca lo scatto perfetto di Bice che contenga tutte le Bice possibili; l’avventura di una moglie modello che non è più mica tanto modello, dopo una notte brava; microcosmi che si incontrano e ripercorrono ogni cosmonomica possibile. Calvino sa essere realista, non possiamo escludere quest’elemento dalla sua voce, nonostante la mitologia, la magia, l’assurdo. Un realismo magico e fantastico che si nutre dei giochi dell’OuLiPo, che non rinnega mai le prime opere neorealiste. Così Calvino sa essere realista ne La giornata di uno scrutatore: disserta di legge-truffa e politica con la stessa naturalezza con cui farà parlare Qfwfq nelle Cosmonomiche. Sa essere così realista che Pier Paolo Pasolini in aperta polemica con lui per un articolo sul delitto al Circeo gli dedica una lettera luterana a pochi giorni dalla morte, chiamandolo laico, razionale, democratico e progressista. Non correva buon sangue tra i due negli anni insieme al Corriere della Sera, e forse è difficile andar d’accordo per persone così profondamente diverse: l’uno animato da un sentimento di cambiamento, urlatore, provocatore; Calvino probabilmente preso da altri pensieri, più universali e metafisici. Non bestemmia, e non comprende l’urlo letale del giovane Pasolini. Persino nell’ultima lettera che gli dedica dopo il delitto non riesce a urlare.
La carnalità esala da Italo Calvino e diventa misticismo. Anche l’unità si disperde, e ne vengono fuori frammenti da ricomporre, istantanee. Eppure sono fotografie così dettagliate, così microscopiche, che ti chiedi come abbia fatto a pensarci. E ti chiedi come mai vengano quasi spese più pagine all’estero su Italo Calvino di quante se ne scrivano in Italia. Perché non abbia ispirato nessuna generazione di scrittori, perché non abbia tagliato letteralmente la gola con le parole, perché sia destinato a essere trattato come uno scrittore di classe senza una mitologia, perché nessuno abbia fatto di Calvino un santino, con quella faccia da stronzo che si ritrova. In fondo, ha avuto anche Parigi.