Dalla rivoluzione alberghiera che, subito, rischia di trasformarsi in una farsesca dittatura del megafono, al “se c’era Renzi”. Primi spunti per una riflessione post-elettorale in divenire.
VINCITORI MORALI E VITTORIE DI PIRRO. Chi ha vinto dunque le elezioni? A oltre un mese di distanza anche a questa (in teoria) semplicissima domanda risulta difficile dare una risposta immediata e inequivocabile. E già questo dice molto dello scenario politico attuale.
Nondimeno, per quanto si tratti della più classica delle vittorie di Pirro, va detto subito che la coalizione guidata da Pierluigi Bersani ― nonostante la conferma di una sostanziosa perdita di consenso ― è quella che ha preso più voti di tutti, il 24 e 25 febbraio scorsi. L’equivoco M5S «primo per numero di voti» nasce infatti solo dall’omissione del dato del voto estero.
PD primo partito, quindi, battendo M5S, oltre che vincente in coalizione, sopravanzando quella guidata da Berlusconi.
Ma la vittoria di Bersani è chiaramente monca, stante il vantaggio minimo acquisito sugli avversari e l’assenza di una maggioranza di seggi in Senato.
Del resto, il vincitore morale è certamente Grillo, che col suo M5S sfiora i 9 milioni di voti, sbugiardando clamorosamente la leggenda secondo la quale, in Italia, le elezioni si potrebbero vincere solamente puntando sulla conquista di quella fantomatica quota maggioritaria di elettorato moderato, di cui anche stavolta si sono perse le tracce. Come già notavamo in un primo commento a caldo, infatti, queste elezioni segnano innanzi tutto la sconfitta dell’idea che si potesse uscire dal cosiddetto bipolarismo muscolare delle due coalizioni inclusive, con una sorta di bipartitismo coatto, realizzato facendo nascere due maxi-partiti non troppo dissimili (PD e PDL) che avrebbero dovuto puntare, stabilmente e strutturalmente, alla conquista dell’elettorato moderato, tagliando le cosiddette ali estreme.
I numeri, sul punto, sono impietosi:
a) le ali estreme non si sono fatte tagliare, ma sono riuscite a far sì che il proprio voto confluisse in un solo contenitore politico: appunto, il movimento di Grillo (il quale, anzi, della troppa familiarità tra i due partiti egemoni ne ha fatto un punto di forza della sua propaganda, col noto ― e, invero, impreciso ― gioco di parole su quell’unica lettera di differenza);
b) l’Italia che nel 2006 ― quando Prodi batté per una manciata di voti Berlusconi ― appariva esattamente spaccata in due, sette anni dopo, vede tre aree politiche che aggregano un consenso che nella migliore delle ipotesi non riesce ad andare molto al disopra del 30% dei voti validamente espressi, a cui si aggiunge un’insieme di forze sedicenti moderate che raccoglie poco più del 10%, nonostante la preziosa leadership di Mario Monti, campione di questa Italia affidabile e responsabile, nonché tuttora Presidente del Consiglio dei ministri (il quale, alla fine dei giochi, non riesce nemmeno a raggiungere la metà dei consensi di una forza dichiaratamente anti-sistema, come quella guidata dal comico genovese).
LO SCONFITTO, IL PERSISTENTE POTERE MEDIATICO E LA FORZA DELLA DISPERAZIONE. Chi ha perso senz’altro il maggior numero di elettori, però, è Silvio Berlusconi.
E, tuttavia, a riprova del suo perdurante predominio mediatico, la perdita netta ― in meno di cinque anni ― di circa 6 milioni e mezzo di voti come partito e di circa 7 milioni nel raffronto di coalizione tra le due tornate elettorali (con perdite, dunque, quasi doppie, rispetto a quelle registrate dalla sinistra), nella sostanza del discorso mainstream, scompare nel nulla e la vittoria morale di Grillo diventa (anche) una vittoria di Berlusconi.
Per cui: la stessa persona che nel pieno della crisi economica, sosteneva che si trattasse di crisi psicologica ― probabilmente basandosi solo sulla sua personale esperienza di vita ― oggi, diventa il responsabile statista che preme per un accordo di governo col tradizionale avversario politico, solo perché:
«Per uscire dalla recessione e ripartire verso lo sviluppo occorrono interventi forti, decisi e precisi, e soltanto un governo esperto, stabile e autorevole che scaturisca da un accordo tra il PD e la nostra coalizione può realizzarle».
In realtà, com’è stato plasticamente evidente in occasione dell’occupazione del tribunale di Milano da parte dei parlamentari PDL, la vera preoccupazione di Berlusconi è un’altra.
La descrizione più efficace dell’accaduto l’ha data Peter Gomez:
«Ora, qui capiamo tutto: la crisi del Paese, le necessità economiche, il bisogno che qualcuno cerchi da Palazzo Chigi di tamponare la situazione. È però mai possibile che nessuno, in un sussulto di dignità istituzionale, dica chiaro e tondo: “Quello del Pdl è un ricatto e ai ricatti non si cede”. Sì, perché questo e non altro, è quello che sta accadendo. C’è un anziano e ricco signore che, per sua stessa ammissione, non vuol fare “la fine di Craxi”. E, sentendosi perduto, chiede una soluzione politica ai suoi processi. Come imputato ha giustamente diritto a essere condannato solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Solo che lui sulla cosa ci ragiona da anni. E deve essere giunto alla conclusione che di dubbi ve ne sono davvero pochi. Troppi processi in corso per sperare che vadano tutti bene. Troppi reati per sperare di farla di nuovo franca. Così i nominati del suo partito, tra i quali figurano 34 indagati e quattro pregiudicati, si presentano in massa a palazzo di Giustizia non per costituirsi, ma per dare un segnale preciso: questa volta siamo stati buoni e civili. La prossima, chissà. È uno stile che in Sicilia la gente conosce bene. Arriva uno, entra in negozio e dice gentile: “Bello questo negozio, bello questo bancone, belle queste tende. Bedde, beddissime. Certo che sono tutte infiammabili”. A volte il commerciante sta zitto e paga. A volte supera la paura, denuncia e vince. Sarebbe ora che qualcuno nel Pd come al Colle provasse a vincere. Non per loro ovviamente. Ma per noi e per ciò che resta di questo disgraziato Paese».
UN BERLUSCONIANO AL QUIRINALE? Soluzione politica alle sue vicende giudiziarie, dunque. Soluzione che, in estrema sintesi, passa per la conquista del Colle. Avere, infatti, una persona di fiducia come Capo dello Stato ― e presidente del Consiglio Superiore della Magistratura ― per Berlusconi è l’obiettivo politico prioritario dichiarato:
«Il capo dello Stato deve essere una persona di garanzia e un moderato di centrodestra».
Facendo finta che sia istituzionalmente accettabile mettersi a mercanteggiare sul nome del Presidente della Repubblica, sorvolando sulle tutt’altro che nobili garanzie che Berlusconi si aspetta, dimenticandosi quanto sia stato politicamente sconveniente scendere a patti con questa persona in un passato nemmeno lontanissimo ― dalla bicamerale al recente governo Monti, arriva sempre il momento in cui Berlusconi infrange i patti ― si può mai seriamente pensare di piegare una carica di tale importanza a un disegno di mera difesa di interessi individuali, solo per mettere in piedi un precarissimo governo Bersani, senza una coerente base programmatica e costantemente in balia degli umori di chi ha preteso la prima carica dello Stato, per farlo nascere?
Berlusconi chiaramente si fa forte dell’intransigenza di Grillo (sulla quale ritorneremo diffusamente in prosieguo di discorso) rispetto a ogni ipotesi di accordo politico-programmatico col PD, per far pesare i suoi voti, decisivi nell’instabile equilibrio di forze del Senato, in maniera tale da ottenere un obiettivo (per lui) strategico e di lungo periodo. Ed è proprio questo, forse, l’aspetto più paradossale della scelta isolazionista dei parlamentari a 5 stelle: guadagnare il consenso di un quarto dei cittadini italiani che hanno votato, puntando tutto sul cambiamento e, poi, far sì che Berlusconi ― l’uomo che ha letteralmente sequestrato il destino di un intero Paese, di fatto, immobilizzandolo, dal 1994 ― rimanga in grado di condizionare pesantemente la politica italiana da qui al 2020, qualora il PD scegliesse malauguratamente di scendere a patti con lui e di mettere davvero un berlusconiano a Capo dello Stato, per il prossimo settennato.
I REFERENDUM DEL 2011 E IL SEGNO DEL CAMBIAMENTO. Che in Italia vi fosse già da molto prima della recente tornata elettorale una fortissima domanda di cambiamento, infatti, è un’evidenza talmente macroscopica che solo persone molto miopi (o molto in malafede) potevano riuscire a non vederla.
La primavera del 2011 aveva dato anche segnali molto chiari rispetto a che tipo di cambiamento l’Italia, in larga maggioranza, si aspettasse. Le vittorie di candidature a sindaco, rivoluzionarie, come quella di Pisapia a Milano e ancora di più quella di De Magistris a Napoli, e soprattutto l’esito dei referendum di giugno non poteva dar luogo a nessun equivoco, in proposito.
Quasi 26 milioni di consensi ― la maggioranza assoluta del corpo elettorale ― per l’abrogazione di norme del governo Berlusconi, di fatto, aprivano un campo sterminato per una sinistra disposta a comprendere il messaggio popolare e a farsene interprete.
Le tematiche referendarie dei primi tre quesiti ― acqua bene comune ed energie rinnovabili (al posto di un nucleare che rischiava di essere reintrodotto nel Paese con tecnologie già obsolete) ― sono tutt’altro che estranee alla cultura della sinistra e il quarto quesito (l’abrogazione delle norme speciali in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale) esprimeva chiaramente un forte desiderio di voltar pagina e di chiudere questa lunga parentesi di ingiustizia, che ha visto per quasi due decenni un uomo al potere disposto a stravolgere l’ordinamento giuridico nazionale, pur di evitare di subire condanne in uno dei tanti processi a suo carico. Una semplicissima domanda di giustizia, sulla più nota massima della materia: la legge è uguale per tutti. La comprensibilissima richiesta, insomma, di smetterla di assecondare la farsa del complotto giudiziario infinito, facendo sì che l’imputato Berlusconi si decidesse a dimostrare esclusivamente nelle aule di giustizia quell’innocenza che millanta da anni, senza arrivare quasi mai a ottenere, però, quella massa di assoluzioni con formula piena, che chi si dice accusato di fattispecie criminose del tutto insussistenti dovrebbe, poi, verosimilmente ottenere.
Di questa domanda di cambiamento e di giustizia, Grillo si è fatto portavoce per anni attraverso il suo blog (e nei territori), ma ― come vedremo meglio, in seguito ― i frutti di questo suo commendevole lavoro, il Movimento 5 Stelle li ha potuti raccogliere, andando ben al di là di ogni più rosea previsione, anche a causa di una serie di clamorosi errori strategici commessi dalla sinistra, a partire dal momento in cui il PD ha scelto di far nascere il governo Monti e di sostenere convintamente (salvo timidissimi distinguo) la sua azione politica.
RIVOLUZIONE DIGITALE O DITTATURA DEL MEGAFONO? Sappiamo che il boom del Movimento 5 Stelle ha determinato una sostanziale situazione di stallo al Senato, con conseguente impossibilità di avere in tempi brevi un governo in grado di soddisfare la domanda di cambiamento che, ormai, quasi tutti riconoscono come prevalente nel Paese.
Tuttavia, queste settimane di incertezza post-elettorale hanno permesso agli italiani di cominciare quantomeno a conoscere i cittadini che sono passati, in un tempo relativamente breve, dall’attivismo online, tramite il blog di Grillo, alla rappresentanza parlamentare. I due volti più noti sono senz’altro quello dei due capigruppo di Camera e Senato: Roberta Lombardi e Vito Crimi. Qualcuno, probabilmente, ricorderà il veemente intervento sul caso marò del deputato Alessandro Di Battista.
Per i campani — e per i napoletani in particolar modo — non è stato invece certo una volto nuovo quello del candidato alla presidenza della Camera, Roberto Fico. Nel 2010, Fico era il candidato M5S alla presidenza regionale e l’anno successivo era candidato sindaco a Napoli: il movimento raccolse poco meno di 10mila voti nel capoluogo campano alle regionali e ancora meno, nel 2011, alle comunali; in entrambe le occasioni Fico, in percentuale, ottenne anche meno consensi della lista.
Poche settimane fa, poi, il miracolo: oltre centomila voti in più rispetto ai due precedenti.
Va detto che gli attivisti campani non sono certo stati inoperosi sul territorio negli scorsi anni e non era dunque demerito loro o del leader locale se le precedenti esperienze elettorali erano andate parecchio lontano degli straordinari risultati delle scorse elezioni, in cui Fico era comunque il capolista di collegio per la Camera.
La verità è che proprio le precedenti esperienze elettorali in ambito locale hanno rafforzato un po’ in tutti gli attivisti la convinzione di quanto fosse necessario e utile affidarsi al “megafono” Grillo.
Ed era infatti questo il senso più genuino della nota espressione: la buona fama di Grillo, nella campagna elettorale per le politiche, avrebbe potuto amplificare la validità del messaggio positivo di cambiamento, portando a risultati che era lecito aspettarsi fossero decisamente migliori dei primi tentativi svolti in ambito locale (e di questo si era già avuto sentore nelle amministrative del 2012).
Ma se i voti si sono decuplicati, nel giro di un paio di anni scarsi, ciò è dovuto a un insieme di fattori, non tutti ripetibili.
I meriti di Grillo — e del suo alter ego Casaleggio — sono legati, infatti, non tanto (e non solo) alla comunicazione nel web, che era molto attiva fin dal primo V-Day nel 2007, senza riuscire ad aggregare chissà quali consensi, come abbiamo appena visto.
I veri meriti sono stati nel saper sfruttare alla perfezione i meccanismi dello show business televisivo.
Quando infatti nella primavera del 2012 si è avuta la prima vera svolta per il movimento, con la vittoria di Pizzarotti alle comunali di Parma, Grillo e Casaleggio hanno capito immediatamente che quel boom nei sondaggi registrato a poche settimane dal voto e proseguito per tutta l’estate era frutto della sovraesposizione televisiva che M5S ha avuto in conseguenza del suo primo significativo risultato politico.
La strategia mediatica dunque è stata tanto semplice, quanto redditizia. Formalmente il movimento si rifiuta di andare in televisione. Sostanzialmente ci sta ugualmente, ma con un solo volto e un solo messaggio: quello delle invettive di Grillo, svolte in piazze stracolme di persone, accorse per assistere ai suoi efficacissimi comizi-spettacolo.
Non è un caso, infatti, che gli eletti a 5 stelle, gli italiani, in larga maggioranza, abbiano cominciato a conoscerli solo a campagna elettorale terminata e a giochi fatti: il piano comunicativo non prevedeva null’altro che il “megafono” (poi anche “capo politico”) in TV.
Da ciò il divieto di partecipazione ai talk show per i singoli candidati, la ferrea disciplina interna rispetto ai rapporti con la stampa e le espulsioni per chi trasgrediva.
Va detto che l’efficacia di questo tipo di campagna elettorale — Grillo che inveisce contro l’austerità e la vecchia politica che affama il popolo, ma preserva i propri privilegi di casta — è difficilmente contestabile, visti gli esiti elettorali.
Ma è altrettanto innegabile che il megafono, ormai, si è rapidamente trasformato in una sorta di depositario della verità e custode dell’ortodossia.
La scelta di proseguire con la campagna elettorale, anche a urne chiuse, contando su un rapido e trionfante ritorno al voto, è palese. Le ragioni di questa scelta meriterebbero un saggio a parte, ma qualche spunto critico possiamo provare già a delinearlo in questa sede. C’è senz’altro la volontà di preservare lo schema vincente anche per il futuro. La strategia post-elettorale, infatti, è stata delineata sul blog in maniera nettissima: a) non sono ammissibili accordi politici con la casta; b) spetta ai vecchi partiti fare quello che hanno già fatto palesemente, a fine 2011, col pretesto della crisi e quello che in realtà hanno sempre fatto negli ultimi vent’anni, seppur non in modo così esplicito; c) il movimento, quindi, svolgerà funzione di governo solo se l’incarico gli verrà affidato in via esclusiva; d) in ogni caso, M5S lavorerà in Parlamento per la realizzazione del suo programma.
In sostanza, per Grillo e Casaleggio, la situazione ottimale sarebbe questa: la formazione di un secondo governo Monti (ovviamente per loro poco importa chi sia in concreto poi a presiederlo) o anche la prorogatio sine die del vecchio esecutivo.
Quello che conta per loro, insomma, è la prosecuzione fino alle prossime elezioni di uno schema politico coerente con quella propaganda che, fin qui, si è rivelata il vero punto di forza del movimento.
Ma quanto ancora può funzionare la riproposizione dello schema M5S vs. Casta, una volta che sei giunto in Parlamento?
L’errore strategico che il comico e il suo guru stanno commettendo rischia di essere fatale, se i due non riescono a uscire subito da uno stallo che potrebbe farli rimanere vittima della loro stessa propaganda.
Da un lato, infatti, si ha la sensazione che a furia di ripetere che la rivoluzione a 5 stelle è inarrestabile e che per la vecchia politica è finita e così via discorrendo, i due leader si siano auto-convinti del fatto che ormai non ci possano essere altri possibili sviluppi: che la loro propaganda, insomma, è la realtà e che il futuro è già scritto, esattamente, come piacerebbe a loro.
Dall’altro lato, invece, c’è la realtà effettiva, fatta di un ottimo risultato elettorale che, però, con 109 deputati e 54 senatori non si può tradurre in nulla di concreto, dato che M5S non ha la maggioranza assoluta in nessuna delle due Camere e, quindi, non è in grado di far passare nemmeno mezza legge, senza il concorso operoso delle altre forze parlamentari e di quello della coalizione guidata da Bersani in particolar modo (alla Camera dei deputati la maggioranza assoluta, in effetti, ce l’hanno loro).
Chi ha ben chiari gli attuali rapporti di forza in Parlamento, dunque, si rende perfettamente conto di quale livello di azzardo politico rappresenti la scelta di proseguire la campagna elettorale, sbattendo la porta in faccia alle ripetute offerte di collaborazione di Bersani. E tra gli elettori a 5 stelle esistono diverse persone che, ragionevolmente, avrebbero preferito che i propri “dipendenti” — come amava dire spesso Beppe Grillo — usassero il proprio voto per dare immediato inizio al cambiamento, invece di aspettare di ottenere un improbabile e inquietante 100% dei voti per poter agire.
Al momento in cui scriviamo, il commento più votato al post “Perché hai votato per il M5S?” in cui il leader supremo sosteneva, in sostanza, che chi non condivide la sua linea politica ha sbagliato a votare per il movimento, iniziava così:
«Ho votato per poter partecipare alla democrazia dal basso. Ma tu non ci hai fatto votare se volevamo realizzare anche solo una parte del programma hai deciso tu o 100% o niente (…)».
Questo commento, tra l’altro, da un certo momento in poi, non risulterà più visibile tra i più votati, per cui, ora, bisogna andare a cercarselo, spulciando tra le pagine dei vecchi commenti. Operazione, tutto sommato, abbastanza agevole per chi ha fotografato il testo o ne ha qualche altra traccia, ma pressoché impossibile per chi ne ha solo un vago ricordo.
E non è la prima volta che il blog di Grillo presenta questo tipo di malfunzionamenti che, volutamente o meno, finiscono col rendere meno palese il peso del dissenso. Un dissenso che in sostanza Grillo e Casaleggio reputano inconcepibile, visto che quello che si recentemente registrato sul blog è stato definito come il frutto del lavoro di “orde di trolls” infiltrati. Ragionamento ad alto tasso di totalitarismo, questo, anche nell’ottica della più classica delle democrazie rappresentative (essendo inconcepibile che quasi 9 milioni di persone ragionino tutte con una sola testa e parlino tutte con una sola voce). Ragionamento che però è del tutto inconciliabile — e su questo c’è poco da obiettare — con la modalità operative che in teoria avrebbe dovuto avere chi si diceva fautore di una sorta di democrazia diretta digitale:
«Il MoVimento 5 Stelle è una libera associazione di cittadini. Non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro. Non ideologie di sinistra o di destra, ma idee. Vuole realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto democratico al di fuori di legami associativi e partitici e senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità dei cittadini il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi».
Ed è così che, a poche settimane dall’ingresso in Parlamento, quel movimento che doveva essere lo strumento del cambiamento, quel movimento che si metteva a disposizione della “totalità dei cittadini”, per un quotidiano esercizio democratico nelle istituzioni del Paese, purtroppo, sembra già esser diventato uno strumento per la conquista del Potere, da utilizzare esclusivamente secondo le direttive di chi gestisce il blog beppegrillo.it.
SE C’ERA RENZI. Non sbagliava dunque Bersani a voler insistere nel mettere il movimento di fronte alle sue nuove responsabilità. L’idea del leader della coalizione che, in ogni caso, ha raccolto più consensi era (è?) quella di provare a realizzare un governo di cambiamento, trovando punti di convergenza programmatica col secondo partito per numero di voti.
Le ragioni di opportunità che giustificano questa insistenza sono di lampante evidenza: a) in un quadro politico così frammentato è più che opportuno che chi ha vinto le elezioni di stretta misura cerchi la collaborazione delle forze politiche ritenute più affini; b) se i parlamentari a 5 stelle dovessero opporsi fino alla fine e senza fratture interne a ogni ipotesi di sostegno al governo del cambiamento, non avranno poi gioco facile nello spiegare al proprio elettorato le ragioni di questa scelta inconcludente; c) ogni ipotesi di nuovo accordo su un modello di governo analogo a quello uscente rischia di essere un vero e proprio suicidio politico.
Proprio quest’ultimo punto, in realtà, è quello che mostra chiaramente come, purtroppo, gli errori più grossi Bersani li abbia fatti nei mesi scorsi, come già accennavamo in precedenza. Il sostegno a Monti è stato fatale. Avallare una politica di austerità all’insegna di tasse che colpivano pesantemente e diffusamente la popolazione e di tagli che non andavano a incidere significativamente su quelli che, da anni, venivano propagandati come privilegi di casta è stato ciò che ha spianato la strada alla vertiginosa crescita di Grillo, consentendogli di intercettare quasi tutto il voto di protesta dei delusi dei due schieramenti ex rivali. Su queste basi si può seriamente pensare di replicare anche solo per un breve periodo un’esperienza di governo PD-PDL (con l’entusiastica partecipazione dei montiani, ovviamente)?
Ma c’è un altro grave errore che Bersani ha fatto nei mesi scorsi. Ci riferiamo alla scelta di modificare lo Statuto del PD per permettere a Matteo Renzi di provare a strappargli la leadership che, di regola, spettava al segretario eletto. In questo modo, quelle che avrebbero dovuto essere primarie di coalizione sono di fatto diventate un secondo round delle primarie per la leadership del PD. Errore strategico gravissimo, perché nei fatti si è depotenziato l’apporto che alla coalizione poteva dare Nichi Vendola, in qualità di convinto oppositore delle politiche di austerità messe in campo dal governo Monti. Errore doppiamente grave, poi, avendo anche deciso di stracciare la famosa foto di Vasto, nella convinzione tremendamente fallace di riuscire ad attrarre automaticamente a sé l’elettorato IdV e quello residuale dei post-comunisti, facendo semplicemente leva sulla logora strategia del voto utile (strategia che, col senno di poi, si può ben dire che ha ulteriormente rafforzato M5S, sui cui è confluito anche il voto di protesta di chi voleva dare da sinistra un segnale a PD e SEL, essendo certo di non veder sacrificato il proprio voto a causa di quelle soglie di sbarramento, che hanno reso fallimentare l’esperienza — invero molto improvvisata — della Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia).
Bersani, in sostanza, si era illuso che sarebbe bastato sconfiggere il suo più forte avversario interno, per passare, poi, tranquillamente all’incasso di una strategia di responsabilità e fair play, che lo avrebbe premiato nella sfida decisiva contro Berlusconi. Sottovalutando, così (con tutti i sondaggisti, in verità), il peso degli indecisi e la forza di attrazione che Grillo poteva esercitare anche su chi ha visto nel ballottaggio tra Renzi e Bersani una sinistra debolissima. Una sinistra che, in pratica, se avesse vinto il primo avrebbe puntato direttamente a conquistare il voto degli ex berlusconiani e se avesse vinto il secondo avrebbe cercato di tenere assieme un partito già molto spaccato di suo, che nel post-voto, quasi sicuramente, avrebbe dovuto rivolgersi anche ai montiani (costantemente e ripetutamente rassicurati rispetto alla docilità del fido Vendola, per tutta la campagna elettorale).
Sono (anche) queste le circostanze eccezionali che hanno agevolato il boom di Grillo: una forte domanda di cambiamento da sinistra che il PD non ha saputo in alcun modo leggere e che ancora fatica a interpretare, ridando fiato all’eterno mantra dell’Italia che è ontologicamente e immutabilmente Paese di destra in cui la sinistra, per vincere, dovrebbe comunque in qualche modo imitare quelli che stanno dall’altra parte.
Mantra che si vorrebbe riproporre anche adesso, nonostante i 26 milioni di consensi della primavera del 2011 su tematiche di chiara opposizione al governo Berlusconi, nonostante tutto il sommovimento di voti che hanno visto, nelle tornate elettorali successive al 2008, il PD in calo e l’opposizione più netta dell’IdV in ascesa, come è evidente nella tabella che abbiamo già visto per la città di Napoli (dove, 2012 a parte, praticamente si è votato ogni anno) e come è ancora più lampante su scala nazionale se si raffrontano i 3,5 milioni di voti che IdV e post-comunisti prendevano alle Europee del 2009, col dato di Rivoluzione Civile che non riesce nemmeno ad arrivare a 800mila voti. Non ci vuole chissà quale stratega politico per comprendere dove sono andati a finire i 2,7 milioni di differenza, visto che M5S a pochi giorni dal voto riempiva la piazza storica della sinistra romana, appropriandosi di molti temi e icone che il PD ha colpevolmente trascurato fino ad abbandonare.
Su queste basi, quanto può essere ragionevole la convinzione con cui a urne chiuse si è cercato (e ancora si cerca) di lasciar passare il messaggio che “se c’era Renzi” le elezioni sarebbero andate diversamente e la vittoria di misura ottenuta da Bersani, sarebbe stata un trionfo certo, avendo come leader il sindaco di Firenze?
Su quali basi Renzi avrebbe dovuto o dovrebbe trionfare, quando nella competizione a cui ha preso parte democraticamente ha perso con un distacco di parecchi punti percentuale? Sulla base delle dichiarazioni di qualche mago indovino? O sulla base di quegli stessi sondaggi che davano il PD nettamente in testa alla Camera e probabile vincitore anche al Senato, se solo fosse riuscito a prevalere in alcune Regioni chiave? Misteri della fede.
SI PUÒ USCIRE DALLA CRISI, SVOLTANDO A SINISTRA? Bersani ha fatto diversi errori dunque. Quelli più grossi, nei mesi che hanno preceduto il voto, come abbiamo appena visto. Ma, pur avendo indovinato la strategia di fondo nel post-voto, puntando tutto sul governo del cambiamento, un errore senz’altro da evitare è stato quello della definizione di otto punti di programma così vasti — ogni punto, in realtà, è un insieme di ulteriori punti — e generici, da dare adito a facili critiche, piuttosto che ad apprezzamenti.
Ferma restando quella che è la legittima elaborazione programmatica che il PD sceglie di mettere in campo come risposta al risultato elettorale, se si voleva davvero trovare l’accordo politico con una forza notoriamente refrattaria a questo tipo di offerta, come minimo, si sarebbero dovuti mettere sul tavolo uno o più punti del programma dei 5 stelle, sui quali Bersani poteva impegnare la sua coalizione per darne una pronta e immediata realizzazione.
Già a tempo debito noi segnalammo i contenuti “di sinistra” del programma M5S. Recentemente un lavoro di raffronto più articolato sta emergendo nel blog collettivo “Programmi in Movimento”.
Di certo c’è un punto preciso del programma grillino — nonché sub-punto del punto 2 della proposta bersaniana — che poteva dare una svolta immediata alla trattativa: il “sussidio di disoccupazione garantito”. Partendo da una proposta di legge che è online da circa un anno ed ha già raccolto oltre 50mila firme di adesione, si poteva dare enorme concretezza all’ipotesi di accordo, stanziando quei circa 21 miliardi di euro che dovrebbero dare immediato respiro ai tre milioni di disoccupati italiani e contestualmente rilanciare la domanda interna, avviando una conseguente fase di crescita, dopo anni di stagnazione e recessione.
Dare maggiore concretezza alle proposte del governo di cambiamento, scegliendo anche i ministri con una soluzione analoga a quella che già ha spaccato il movimento in occasione dell’elezione del Presidente del Senato, avrebbe dato più chance si successo all’iniziativa di Bersani.
Soprattutto, il PD avrebbe dovuto compattamente sostenere il segretario in questa strategia, esplicitando che sulla proposta di cambiamento, in caso di rifiuto dei 5 stelle, il partito avrebbe chiesto la fiducia direttamente ai cittadini italiani, tornando subito a votare. Con il che, i tanti malumori che già si registrano tra gli elettori M5S avrebbero potuto indurre i parlamentari a sganciarsi dai gestori del blog, salvo poi doversi andare subito a confrontare con l’effetto nelle urne di questa montante disaffezione e delusione, in caso contrario.
Non è andata così, invece.
In parte perché nel PD c’è una consistente fronda interna che vede di buon occhio l’ipotesi di una sorta di Monti-bis, magari, con altri protagonisti e contenuti leggermente differenziati.
In parte perché quest’ultima opzione non spiaceva nemmeno al Presidente della Repubblica in scadenza di mandato. Non si spiega, altrimenti, l’ostinazione di Napolitano sulla necessità di avere certezza assoluta sulla maggioranza in Senato, già sulla base delle dichiarazioni delle varie forze politiche nei colloqui e il disappunto di Bersani che contava al contrario di riuscire, in qualche modo, a smontare il ridicolo gioco di parole propagandistico su cui si è costruita la strategia dei grillini (che non danno la fiducia, perché non si fidano…) e a bissare, così, il successo dell’operazione Grasso, andando comunque in aula a chiedere la fiducia.
Dunque, ora, sulla carta, abbiamo un potenziale Presidente del Consiglio che è stato messo tra parentesi, visto che il preincarico è ancora formalmente operativo e le due irrituali commissioni di esperti nominate da Napolitano, ufficialmente, hanno il compito di «facilitare la ricerca di indicazioni programmatiche che possano essere condivise dai partiti», stando alle parole di uno dei suoi più autorevoli membri.
Che, poi, sia lo stesso Valerio Onida, pochi giorni dopo, restando vittima di uno scherzo telefonico, a esprimersi in questi termini sul vero senso di questa singolare operazione, poco meraviglia:
«Serve soltanto a coprire un po’ questo periodo di stallo, che è dato dal fatto che in Parlamento non è venuta fuori una soluzione e che l’elezione del nuovo Presidente sarà fra quindici giorni. (…) l’elezione del nuovo Presidente è importante perché il nuovo Presidente potrà non solo fare ulteriori tentativi ma potrà anche dire, al limite, sciolgo le Camere (…) e questo Napolitano non lo può fare».
Era già abbastanza chiaro, insomma, che finché non si sbloccherà la questione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, quella del nuovo governo non potrà avere soluzione.
Resta solo da capire, se nei prossimi giorni nel PD prevarrà l’anima filo-berlusconiana o quella movimentista. Non ci azzardiamo a fare previsioni. Segnaliamo soltanto che se si sceglierà di cedere e di provare a giocare, ancora una volta, sul terreno del proprio avversario storico, è facile che questo, alla fine, abbia nuovamente la meglio, avendo un’esperienza e un talento impareggiabile, sul piano della conciliazione della demagogia col perseguimento dei propri interessi specifici.
E gli otto punti della svolta berlusconiana recentemente presentati — in estrema (e incompleta) sintesi: no IMU, no Equitalia, no tasse, presidenzialismo e riforma giustizia — danno già una traccia molto chiara, in tal senso.