Una strana ondata schizofrenica sta attraversando il mondo nell’ultimo frangente di tempo, da una parte un sentimento di orgoglio risorge misto alla soddisfazione, dall’altro un deciso malcontento sembra aleggiare sui risultati che vengono fuori dalle urne, una particolare forma di dissenso che vaga per i paesi democratici – eppure quei risultati continuano a ripetersi. Dalla Brexit all’elezione di Trump fino alla crescita straordinaria di Salvini in Italia, sembra che il fascino esercitato dal potere nelle sue forme più autoritarie – o dai toni nazionalistici – si stia ridestando dal suo sonno. Un potere accompagnato da uno speculare e animato dissenso, che ci fa riflettere su temi caldi come: demagogia, populismo, autoritarismo, e la natura propria di questo potere.
Parallelamente alcune rivelazioni di Christopher Wylie per l’inchiesta su Cambridge Analytica hanno animato un dibattito sull’uso dei nostri dati e sui grandi colossi digitali come Facebook e Google. Se è pur vero che siamo uomini e donne capaci di resistere alla tentazione della propaganda con le opportune difese, si è aperto il vaso di Pandora che scoperchia come questa impennata nella raccolta di dati (date un’occhiata al Guardian per intenderci) riesca a penetrare in modo più forte i nostri cuori, come possa essere capace di portare alla luce le paure umane che sono utili da strumentalizzare per la propaganda politica. Le comunità immaginate sul modello autoritario hanno bisogno della percezione di un nemico esterno, l’Europa, il migrante, persino coloro che minano le fondamenta della famiglia tradizionale – tutto è strumentale alla costruzione di un racconto.
Lo scorso 18 Marzo Vladimir Putin è stato rieletto – con una percentuale da regnante – presidente in Russia. L’autoritarismo putiniano continua a resistere, nel paese più esteso del globo (ma – in proporzione alla sua estensione – anche il più disabitato), un potere che spazza via ogni avversario con la forza, e si fonda pure su un eccezionale consenso, probabilmente anche abbastanza incomprensibile di qui in Europa – dove tutto è più frammentato e minuscolo. Persino i dissidenti, gli oppositori, gli avversari – finti o presunti tali che siano – sapevano che Vladimir Putin avrebbe ancora vinto, e il suo regno avrebbe potuto perpetuarsi. Eduard Limonov, poeta e dissidente russo, non si è mai risparmiato in critiche contro Putin. Tuttavia le accuse di Limonov al Presidente non raggiungono gli apici del dissenso che ha dimostrato per Gorbacev, la cui perestrojka – a suo dire – sarebbe uno dei grandi errori della Russia. Con Putin, per Limonov, la Russia ritrova una sua espressione di potenza dentro lo scacchiere mondiale, una potenza perduta dopo il magnifico crollo dell’89.
“Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore”, con questa frase di Vladimir Putin si apre il romanzo su Limonov dello scrittore francese Emmanuele Carrère. Eppure a scrutarlo da lontano quel Presidente russo, il piglio slavo che rende duri i tratti del suo volto, sarebbe difficile credere nel tenero equivoco che possa evocare persone senza cuore. E allora ci si chiede chi sia Vladimir Putin: l’ex spia del KGB, il romantico che rimpiange il comunismo, il realista che ridisegna la mappa delle alleanze russe, l’amico dello sciita Bashar al-Assad, quello che “sconfigge” (davvero?) l’Isis andando in soccorso a un dittatore siriano capace di orride barbarie contro il suo stesso popolo, quello che recentemente si trova al centro di una bufera diplomatica dopo le morti per avvelenamento di ex spie russe in Gran Bretagna, quello che è stato contestato da voci libere come quella della giornalista Anna Politkovskaj – sul cui omicidio ancora si attende chiarezza, quello che continua a restaurare un sentimento religioso nella sua terra dopo anni di ateismo, e su queste basi mette alla berlina gli omosessuali, quello che flirta con Donald Trump e poi lo abbandona al suo destino, lo stesso personaggio di cui si narra finanzi il populismo in giro per l’Europa, perché così l’Europa è distratta – divisa – più frammentata – presa dalle sue beghe, troppa presa da se stessa per preoccuparsi della Crimea. Chi è il regnante di Russia?
Nel suo affascinante viaggio alla ricerca della letteratura russa, lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgaard ci ha consegnato il ritratto di un popolo arreso intorno al suo consenso, forse un po’ stanco e fiacco per troppa “storia”. Quello che indaga Knausgaard non è il potere, il suo sistema pervasivo, il modo in cui ha finito per riprodurre e accentuare enormi disuguaglianze economiche e sociali – lo scopo è portarci a diretto contatto con quella che Virginia Woolf chiamava l’anima russa. Ed è divertente ricordare proprio ora – in pieno clima da guerra fredda tra Regno Unito e Russia – cosa scriveva la Woolf in proposito della difficoltà di tradurre in lingua inglese la vera protagonista della letteratura e dell’immaginario russo: l’anima. Il viaggio dello scrittore norvegese alla ricerca della letteratura, ci porta segretamente a fare i conti con le nostre anime, e a riflettere su come quell’esercizio di autoritarismo che esiste in Russia stia riscuotendo lo stesso appeal anche fuori da quei confini. Il fascino del leader forte e duro porta i nomi e i volti di Trump, di Erdogan, di tutti quei movimenti che nel nome della nazione – e della gente, provano a ricostituire una perduta collettività, sfruttando la mistica della demagogia e l’umana stanchezza.
Eppure, in uno scacchiere di poteri così complesso, i destini degli esseri umani sono sempre più incrociati – e ce lo rivela la tragedia che sta ancora consumandosi in Siria, dove gli avvoltoi sul campo di battaglia continuano ad arrivare, mentre il suo popolo fugge e come un karma fortissimo si abbatte sul Mar Mediterraneo, proponendo l’altra grande tragedia – sotto forma di massiccia immigrazione – di questo momento. Erdogan, Putin, Assad, sono tutti logorati da una guerra in Siria che è una guerra di potere, e si abbatte su tutti: sui curdi, sui siriani, sui russi, sui turchi, sugli europei – tutti infinitamente uniti labilmente all’insegna di una tragedia che cerca di fuggire a se stessa affidandosi ai poteri autoritari, e che con un colpo di magia ne fa crescere di nuovi. Mentre si animano dibattiti e si indagano le ragioni più profonde del successo dell’autoritarismo putianiano, aiutato da una buona dose di brogli elettorali e dal supporto materiale dell’oligarchia, le democrazie di mezzo mondo non sembrano così in forma.
Quanto ci piace il potere autoritario finiremo per chiedercelo sempre più forte. Dalla Rust Belt alla piccola collezione di paesini italiana, dalle sedi di Cambridge Analytica ad Afrin, forse un giorno riusciremo a uscir fuori da quella stanchezza umana che ci rendeva incapaci di affrontare una domanda: ne valeva la pena?