Appunti sparsi su una crisi
Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio. (Albert Camus, La peste)
Di questo periodo vorrei che ci ricordassimo del silenzio. Del modo rumoroso con cui si infila fra le strade, le città e le case. Vorrei che ci ricordassimo della lentezza, quello stato di calma apparente che non eravamo in grado di prevedere e che, alla lunga, ci ha sopraffatto, ridisegnando quasi tutto quello che avevamo. Quando arriverà domani, e il concetto di normalità avrà tutto un altro significato, sarà indispensabile non dimenticarsi di ciò che abbiamo vissuto. Non ne usciremo più forti, perché lo stato di cattività semmai stanca lo spirito, ma potremo essere più coscienti. Avremo guadagnato una caratteristica importante, che si riserva solo a poche generazioni, la possibilità di distinguere e selezionare un singolo fattore da un altro e valutarlo nella sua particolare importanza. Dovremo farlo perché, quando arriverà domani, sarà necessario ricostruire tutto.
La consapevolezza è un filo invisibile che collega le persone fra di loro, è un sentimento che si diffonde e si sviluppa in maniera imprevedibile. È il tema che solo uno shock storico può trasformare in un’incombenza a cui non ci si può sottrarre. La consapevolezza è la vocazione all’impulso analitico che già racchiuse in sé la letteratura della generazione del dopoguerra, che ancora più di noi – nonostante qualcuno sostenga il contrario – visse una crisi sistematica e diffusa come la nostra. Da Arendt a Pavese, a Camus a Morante, Malraux, Malaparte e Calvino, la necessità divenne sin da subito quella di raccontare e ricordare, non per intrattenere ma per distinguere, per permettere a tutti di non compiere gli stessi errori. Una consapevolezza che si tinse, come nel caso di Primo Levi, della gravità della colpa, e nel mezzo di critica sociale per Pasolini e Sartre. Il dramma della guerra, quando le città erano macerie, conferì a queste generazioni una luminosità particolare che, anche nel buio più totale, li spinse ad avanzare seppur a tentoni, per permettere a tutti di orientarsi. Ciò che li unì fu considerare il male, nella sua banalità, come un’abitudine dalla straordinaria capacità contagiosa. Invisibile, proprio come questo virus, ma che una volta sedimentato occorre tempo per trovare un vaccino. Da questa epidemia dovremo uscire con il peso di questa consapevolezza particolare, dell’urgenza storica a cui una situazione così feroce ci ha messo davanti. Per chi, soprattutto, non è in grado di farlo.
Un mondo nuovo con vecchi abitanti
Una decisione, un atto, sono infallibili presagi di ciò che faremo un’altra volta, non per qualche mistica ragione astrologica, ma perché escono da un automatismo che si riprodurrà. (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 4 aprile 1941)
La pandemia ci ha mostrato l’immagine cruda di un mondo fragile e lacerato che, per la prima volta negli ultimi decenni, si è ritrovato a dover affrontare, a livello globale, lo stesso nemico. Anzi, proprio le zone che si sono sempre considerate al sicuro, quell’occidente che si fa vanto della sua modernità, sono state il campo di battaglia più sanguinoso, facendo scricchiolare le certezze del suo modello. In questo periodo è diventato ancora più evidente, come se la crisi climatica non lo fosse già di per sé, come la tecnologia e l’impegno umano – anche se particolarmente determinato ad autodistruggersi – sia in fondo estremamente debole nella sua natura. Mentre si incomincia a intravedere la luce in fondo al tunnel, la consapevolezza dovrà permetterci di non accettare che il desiderio di normalità ceda alla normalità ‘di prima’, perché è evidente come questa non sia sostenibile. Per produrre un cambiamento dovremo sovvertire l’automatismo con cui tutto riprenderà, anche quando il Coronavirus sarà annebbiato dai ricordi.
Non sarebbe dovuta servire una pandemia per comprendere quanto sono profonde le lacerazioni – sociali, politiche, culturali – all’interno del nostro paese. L’Italia è, ormai, un vestito pieno di buchi che a forza di essere tirati da più parti ha lasciato solo dei fili sparsi, che vengono annodati e disfatti a piacere del sarto che li prende in mano. L’incapacità di programmazione di cui è afflitta la politica italiana ha mostrato tutti i suoi limiti, così come il dilettantismo e la continua ricerca di potere. Ha dimostrato come gli anni in cui si toglievano fondi alle università, alla ricerca, al welfare, in nome di una cosiddetta rigorosità che serviva solo a coprire lo sporco con un tappeto nuovo, abbiano portato al crollo al primo banco di prova importante. Dove poteva trovarsi unità, del resto, si è preferito alimentare un’ansiosa smania di potere. Dove poteva crearsi solidarietà si sono istituiti tribunali dai balconi, corse all’accaparramento nei supermercati e la solita, triste, gara di astuzia fra poveri. Potevamo creare qualcosa di nuovo, già da tempo, ma abbiamo accettato la mediocrità in chi ci rappresenta e, tristemente, in noi.
L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterraida uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.(Gli italiani, Pier Paolo Pasolini)
Proprio gli italiani rappresentano la grande lacerazione, quegli stessi che chiamavano il diritto alla quarantena e poi denunciavano la soppressione della libertà, che volevano l’esercito in strada e poi preparavano dettagliate strategie di fuga. Quelli che hanno bisogno di una sola categoria per giudicare il giusto dallo sbagliato, che considerano la compagna ‘la propria donna’ e poi si scoprono a far parte dei gruppi Telegram in cui si diffondevano immagini di revenge porn. Il senso di contraddizione unisce questo paese forse addirittura più dell’inno o della sua passione per il calcio, più dell’invidioso odio verso gli altri paesi e la sua caratteristica giovialità. Quell’irreale che Pasolini descriveva amaramente ne Gli italiani, incapaci di esporre un giudizio netto o provare vera indignazione, determinati nel percorrere una strada che li porta verso il baratro. È, in fondo, la contraddizione del paese che abbandona la cultura e non riesce a valutarla come valore quando, per i sessanta giorni di reclusione, se n’è cibato fino in fondo. Del motivo per cui ha passato ore su Netflix e Spotify a consumare film e canzoni ma, allo stesso modo, non crede che la musica e il cinema possano essere un lavoro anche quando non si fanno sold out nelle sale o che abbia bisogno di sostegno come un qualsiasi altro lavoratore. Nel paese in cui il sacrificio diventa parte del lavoro, la soggettività si trasforma nell’unica categoria di valore, che tende a circoscrivere la quotidianità dei problemi e considerarli come gli unici quando, invece, tutto si riassume in un sistema di relazioni e collegamenti. La società italiana è un gioco di scatole cinesi in cui basta non averne aperta una perché gran parte di quel contenuto perda importanza o che cessi di esistere. È in questa tendenza di costante sottovalutazione che il nostro paese ha sposato la mediocrità, lasciandosi abbindolare dall’idea che solo in quanto italiani si guadagna il privilegio sugli altri. Una tendenza che nasconde una feroce mancanza di curiosità e una consapevolezza superficiale affidata al dato di fatto e all’impressione personale. Dove anche il giornalismo più autorevole, quello che dovrebbe essere il primo garante della libertà, finisce per diffondere fake news o diventare la bacheca di annunci pubblicitari a discrezione dell’editore.
Essere consapevoli della nostra realtà è il primo passo verso la comprensione. Alla fine di questa quarantena dovremo essere in grado di separare il falso dal vero, ricostruire le responsabilità storiche da quelle presenti, chi ha sbagliato, chi si è reso colpevole. Solo ragionando sugli errori sarà possibile ricostruire, solo diffondendo la consapevolezza sarà possibile eliminare l’automatismo che ci ha condannato a sparire.