Difficile non riconoscere ai Public Service Broadcasting l’originalità della forma. Fin dalla scelta del nome, quello che oggi è un trio formato da J. Willgoose, Esq. alle chitarre, ai campionamenti e all’elettronica, Wrigglesworth alla batteria e ancora all’elettronica e J. F. Abraham al basso, al flicorno e a una decina di altri strumenti, ha sempre saputo tracciare un manifesto chiaro dei propri intenti artistici: l’utilizzo di materiale sonoro tratto da quelli che in Italia chiameremmo i vecchi cinegiornali come struttura fondante per puntellare le proprie idee musicali giocate sul ripetersi di percussioni e su sonorità che fin dagli esordi richiamavano un universo musicale capace di mescolare, sapientemente, suoni vintage a una propensione, non da sottovalutare, verso dinamiche più contemporanee e futuristiche.
Coi primi due lavori Inform – Educate – Entertain del 2013 e il successivo Race for Space del 2015, la band londinese aveva sperimentato un ampio ventaglio di generi: rock sperimentale, post rock, funky, alternative rock e pop, techno, il tutto immerso in un’atmosfera elettronica. Lavori che delineavano il carattere così peculiare della band e, insieme, le ambizioni non certo nascoste di un progetto comunque unico nel panorama attuale.
Alla terza prova il trio londinese colpisce incredibilmente ancora nel segno riuscendo, nuovamente, a cucire gli spoken words televisivi con gli intrecci musicali ossessivi, originali e mai banali che riesce a creare. La formula rimane la stessa eppure come già successo nei due dischi precedenti ecco che l’opera successiva resta solo apparentemente immobile. In realtà i tre riescono, in modo del tutto naturale, a spostare millimetricamente l’asse del pianeta sul quale girano, finendo con l’ampliare sempre più i riferimenti musicali che qui spaziano addirittura fino al post grunge/hard rock di All out o fino all’ uso spregiudicato di bordoni che, più che alla componente puramente elettronica, sembrano guardare alle sparute sale da concerto dove osa la contemporanea più avant-garde.
Registrato all’Ebbw Vale Institute, Every Valley è un impressionante salto gravitazionale che dalla corsa allo spazio alla base del racconto di Race for Space, ci precipita nelle valli del Galles, scenario e teatro della grande industria carbonifera britannica degli scorsi decenni.
Questo disco ci riporta a un tempo in cui l’idea di essere working class non implicava che non si potesse apprezzare l’arte o la poesia
Sono le stesse parole di Willgoose, un tempo one man band e, tuttora, mente creativa dietro il progetto PSB, a inquadrare il valore di testimonianza di un disco che si offre come tentativo per ripensare, oggi più che mai, a un periodo storico durante il quale vivere in una comunità che si stringeva intorno ad un’attività produttiva significava anche cercare di migliorare se stessi attraverso la consapevolezza e la lotta politica.
Willgoose, di là da una nonna per metà gallese, è un londinese doc e in qualche modo, innegabilmente, con questo progetto tende a replicare, per così dire, un meccanismo intellettuale tipico degli anni settanta (e non solo) con uno sguardo altro, che, da fuori, si poggia sul mondo proletario, in questo caso d’antan. Eppure il lavoro è disarmante per onestà grazie anche all’operazione capillare compiuta attraverso le interviste ai minatori, agli ascolti di registrazioni audio e ai filmati raccolti alla South Wales Miner’s Library presso la Swansea University.
Musicalmente se già nel precedente disco si assisteva alla prima collaborazione (Valentina con ospiti gli Smoke Fairies) è però evidente che la grande novità qui è il coinvolgimento di voci letteralmente fuori dal coro: da Tracyanne Campbell degli scozzesi Camera Obscura, che va a impreziosire il tessuto dream pop di Progress all’inconfondibile timbro di James Dean Bradfield, storica voce dei Manic Street Preachers, in Turn No More, dal trio tutto femminile delle Haiku Salu, capaci di tessere con i suoni da folktronica le trame ipnotiche di They Give Me a Lamp, fino ancora a Lisa Jen Brown dei gallesi 9Bach che qui, duettando con lo stesso Willgoose, su una base tra down tempo e trip-hop, disegna nell’aria delicati ricami con la sua voce senza tempo.
Every Valley, così profondamente britannico e, nel contempo, come suggerisce il titolo così alla ricerca di una dimensione che sappia farsi universale, è un disco maturo e bello che scivola via con incredibile grazia regalando piacere alle orecchie e alla mente. Un disco che riesce a essere, contemporaneamente, più riflessivo e più pop dei lavori precedenti senza rinunciare nemmeno per un attimo a quella cifra stilistica capace di guardare al passato per lanciare un ponte sul futuro.
Abbandonati il buio dello spazio lontano e della guerra fredda che caratterizzavano il lavoro precedente con le sue due copertine a rendere omaggio ai due grandi imperi, oggi travolti e ridisegnati dai nuovi equilibri geopolitici, Every Valley torna invece a guardare dentro i confini circondati dal mare dell’antica Albione e lo fa guardando alla grande illusione del progresso, del carbone, con tutta la sua storia fatta di volti, di sacrifici, di speranze tradite ma anche dei grandi movimenti sindacali che hanno caratterizzato una fetta importante della storia della Gran Bretagna prima dell’avvento della Lady di Ferro e della disgregazione del tessuto sociale ad opera della Terza Via disegnata da Tony Blair. In quest’ottica, la presenza di Bradfield, storica firma rossa della musica britannica diventa così quasi una testimonianza obbligata per un disco che è capace di far riflettere su un passato non così lontano.
Pensato prima della realizzazione di Race for Space, Every Valley è diventato un lavoro quasi urgente dopo il voto che ha sancito la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Non a caso l’area intorno all’Ebbw Vale ha votato in maniera compatta a favore della Brexit. Ecco allora che Every Valley riesce a ricordarci come la crisi attuale affondi le sue radici in un passato legato al presente da un filo rosso che sempre più sbiadito tiene insieme la dissoluzione delle Unions con l’attuale crisi lavorativa. E per un bellissimo disco pop non è certo poco.