III. Mondi separati dalla stessa lingua e uniti dalla stessa visione distopica: meriti, demeriti e la più grande narrazione anti-familiare disponibile su Netflix
L’immagine di un imprenditore multimiliardario che finanzia la spedizione di due astronauti americani, dando luogo al primo lancio di esseri umani nello spazio da suolo statunitense dal 2011, ha invaso social, telegiornali, quotidiani nel momento in cui la società degli Stati Uniti appare messa a durissima prova. La sovrapposizione di una nuova esplosione di rivolte a seguito dell’ennesimo, vergognoso episodio di violenza da parte della polizia ai danni di un afroamericano, da una parte, e la più grossa pandemia che il paese sia trovato a fronteggiare dall’altra: l’attualità del razzismo e della fragilità del sistema sanitario, contro l’inattualità delle utopie promosse da Elon Musk e del suo delirante progetto spaziale, basato sulla sua convinzione che i giorni della Terra siano limitati e mirato a spedire un gruppo di privilegiati nello spazio, lontano da qualsiasi cosa la Terra possa diventare nei prossimi decenni. Eppure, l’appoggio della NASA, l’agenzia spaziale americana che ha trasformato in realtà l’idea folle di inviare degli uomini sulla luna, dimostra che questo futuro è diventato un presente.
Chi non ha colto la portata di questo momento storico, non ha compreso il messaggio cruciale che abbiamo ricevuto: che il capitalismo americano è riuscito a comprarsi anche il sogno spaziale. Probabilmente, l’ambizione di Musk sopravviverà a lui medesimo, nel senso che per quanto veloce proceda la tecnologia, le possibilità di vedere Marte popolata da coloni SpaceX appaiono decisamente più basse, nell’immediato, di quelle che riguardano la possibilità di vedere la Terra distrutta sotto i nostri piedi. Ma l’idea dell’élite di Musk appare ancora più fondata oggi, in un momento in cui la Terra è in ginocchio di fronte alla minaccia non di un nemico alieno, bensì di un nemico interno originato proprio dall’incapacità dell’uomo di prendersi cura dell’ambiente in cui vive. A pensarci, le visioni di Musk somigliano sempre di più a quelle di un altro famoso personaggio sudamericano e naturalizzato canadese, in questo caso un regista, Neill Blomkamp. Nel film Elysium, uscito nel 2013, Blomkamp aveva immaginato una Los Angeles del futuro che accoglie la moltitudine dei miserabili rimasti sul pianeta, mentre l’élite californiana si è trasferita su una stazione orbitante dotata di tutti i comfort, inclusa una capsula che guarisce da qualsiasi malattia.
Negli ultimi anni, grazie anche alla moltiplicazione delle piattaforme di streaming su Internet, film e serie televisive che affrontano questa tipologia di discorsi si sono moltiplicate in modo incontrollabile, dimostrando che la preoccupazione per il futuro più immediato è un argomento più presente rispetto alla possibilità di immaginare un futuro remoto. Alcuni di questi prodotti visivi sono produzioni di grande qualità: penso per esempio a The Expanse, avviata un paio d’anni dopo il film di Blomkamp, nel 2015, e giunta alla sua quarta stagione su Prime lo scorso dicembre. In modo piuttosto sofisticato, gli ideatori Mark Fergus e Hawk Ostby hanno trasposto sul piccolo schermo dei nostri dispositivi domestici i romanzi di James S. A. Corey, in cui ci troviamo molto vicini alla realizzazione dei fantascenari di Musk. Infatti, la serie segue le avventure di un gruppo di personaggi di varia provenienza e professione in un sistema solare interamente colonizzato e in cui vige uno stato di Guerra Fredda tra la Terra, Marte e gli avamposti della fascia di asteroidi, tra intrighi fantapolitici, colpi di scena e sparatorie cosmiche.
Questa insistenza a riportare sullo schermo una versione estremizzata del presente piuttosto che provare a immaginarsi cosa ci aspetta davvero dal futuro è stata probabilmente inaugurata sul piccolo schermo dal fortunato Black Mirror di Charlie Brooker, apparso per la prima volta sugli schermi inglesi nello stesso 2011 a cui risale l’ultimo lancio di uomini nello spazio da parte della NASA. Ci vengono rapidamente alla mente alcune pagine del libro di Mark Fisher Realismo capitalista, diventato da qualche anno molto citato anche dalle nostre parti, da quando è stato finalmente tradotto da Nero Edizioni nel 2018, pur essendo stato pubblicato per la prima volta nel 2009, ossia a ridosso della grande crisi economica globale del 2008. Basandosi sulla frase che è diventata rapidamente una massima – è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo – Fisher ci invita a constatare che la fantascienza, e in particolare la fantascienza distopica, non cerca più di inventare il futuro ma si limita a rielaborare il presente in cui viviamo. Piuttosto che la non-attualità per eccellenza, dunque, anche la fantascienza riduce le sue ambizioni e cerca l’attualità.
Dai sogni di Musk alla visione di un’élite che vive segregata in un altrove irraggiungibile dalla massa condannata a condizioni disumane è dunque un attimo. La Los Angeles di Blomkamp in realtà convive già con quella di Musk, una città dalle forti contrapposizioni socio-economiche in cui è possibile trovare nello stesso isolato la classica villetta con piscina, la prestigiosa filiale di una banca o di un’azienda, un palazzone di appartamenti fatiscenti e una tendopoli, l’uno a fianco all’altro. Ci siamo anche abituati all’idea che questo tipo di fantascienza ci mostri il mondo attuale con grande precisione, ma ci parli principalmente della nazione che per noi incarna tutte queste contraddizioni, ossia gli Stati Uniti d’America. Ma l’America non è una sola, ce ne sono altre in cui le contrapposizioni tra élite e subalterni appaiono con un’evidenza se possibile perfino maggiore. Forse è per questo che la serie TV in cui il tema delle discriminazioni socio-economiche è stato affrontato a mio avviso più in profondità non è di produzione americana, bensì è prodotta da un paese che solo di recente si è affacciato dalla nostra ormai domestica interfaccia digitale: Netflix.
La serie a cui mi riferisco, 3%, è una delle prime produzioni Netflix di origine non statunitense, e secondo il gioco di rispecchiamenti che ho appena esposto ci cala direttamente in una versione deformata del Brasile contemporaneo, dandoci la possibilità di confrontarci attraverso il nostro schermo con un paese che ha vissuto rapidamente un processo di sviluppo analogo a quello neocapitalista americano, partendo dal medesimo background di colonia europea – sotto il dominio del Portogallo invece che della Gran Bretagna o della Spagna – e giungendo in questo periodo a un medesimo punto di arrivo, con l’elezione di Jair Bolsonaro che non a caso diventato rapidamente il più grande alleato di Donald Trump, affiancandosi agli Stati Uniti anche nella discutibile gestione dell’emergenza sanitaria provocata dalla rapida diffusione del Covid-19. Non ha sorpreso nessuno, dunque, che in poche settimane il Brasile sia diventato anche il secondo paese per numero di infetti e di vittime al mondo.
3% si apre su uno scenario apocalittico futuro in cui una megalopoli brasiliana, identificabile probabilmente con San Paolo, dove la serie è girata, è stata ridotta a una enorme favela i cui abitanti, giunti al ventunesimo anno di età, sono ammessi a una grande competizione definita Processo. Questa allegoria dei talent show contemporanei costituisce la porta d’accesso per una ristretta minoranza della popolazione brasiliana giovanile al Maralto, un’utopia ambientalista e democratica dove tutti sono uguali e vivono in armonia sulla base della comune appartenenza all’aristocrazia del merito. Al Maralto ci si arriva con un sottomarino segreto e la sua posizione non è nota agli abitanti dell’entroterra, che in ogni caso sono privati di qualsiasi mezzo per poterlo raggiungere in superficie, un po’ come nella cosmologia di Dante era impossibile raggiungere Purgatorio e Paradiso nonostante si provasse ad avvicinarcisi con una nave, come ai tempi aveva fatto Ulisse.
L’aspetto che mi ha colpito di più di 3%, al di là della sua struttura narrativa ibrida che attinge da vari esempi di fantascienza distopica, alcuni dei quali ho menzionato pocanzi, è la sua narrazione antifamiliare. La contrapposizione tra la meritocrazia dei cittadini del Maralto e la discendenza diventa più complessa man mano che ci si addentra nelle serie, fino al punto in cui la linea narrativa principale è costituita dalla contrapposizione di un fratello e una sorella, mentre a latere, numerosi momenti dello sviluppo della storia vedono i protagonisti contrapposti ai loro genitori. Il Brasile postatomico di 3% si basa dunque interamente sul merito in opposizione a qualsiasi tipo di ideologia famigliare, che è abolita in partenza perché, scopriremo al termine della prima stagione, prima di accedere al Maralto i nuovi cittadini devono spontaneamente sottoporsi a un processo di sterilizzazione. Non ci sono bambini al Maralto, il ricambio della popolazione avviene esclusivamente mediante la selezione dei meritevoli dell’entroterra.
Cos’è che trovo di originale, di 3%, e che attraverso un contenitore simile a quello di numerose serie americane e alla riflessione su medesimi aspetti legati all’emergenza ambientale e alle disparità socioeconomiche, si porti avanti una riflessione specifica che riflette sul Brasile, un paese che non è in primo piano, nel nostro immaginario, quanto gli Stati Uniti. Innanzitutto, allargare la finestra al Brasile ci mostra che i mali che riconosciamo negli Stati Uniti sono molto più presenti e diffusi di quanto ci appaia che concentrandosi sempre e comunque sulla stessa prospettiva: questi mali ci appartengono, sono intorno a noi. Scriveva proprio Henry James, uno dei classici della letteratura americana, che la casa della fiction aveva molte finestre: grazie a Netflix, per una volta possiamo aprirne un’altra, e arrivare in ogni caso a un punto di arrivo simile, ma attraverso un percorso diverso.
In questo modo, 3% ci invita a condividere una profonda riflessione sulla famiglia nella società brasiliana, ma anche la forte contrapposizione che si registra tra le modalità in cui si accede all’élite e gli elementi che contribuiscono a rendere più profondo il dislivello tra le classi sociali. Questa narrazione ci dice molto anche a proposito del successo politico di Bolsonaro, amato dai suoi elettori per la sua immagine di self-made man, proveniente dai sobborghi poveri e giunto attraverso una lunga carriera militare direttamente al vertice della politica del paese. Come i personaggi di 3%, ci è arrivato attraverso il proprio merito, certo non grazie alla discendenza da un genitore povero ed emigrato. L’ideologia supportata da Bolsonaro, tuttavia, contraddice la sua storia ribadendo i valori tradizionali cari agli elettori di Trump, a quelli di Salvini, e su cui si erano basati i numerosi dittatori che si sono succeduti nella storia brasiliana: quelli della famiglia tradizionale, della Bibbia, dell’obbedienza all’autorità da favorire alla libera iniziativa. Anche questa contraddizione è problematizzata in 3%, che in questo modo problematizza anche la massiccia presenza televisiva nel paese, non molto dissimile dal peso che la cultura televisiva ha nel nostro paese.
3% ci sottopone anche una fantascienza che parla una lingua diversa da quella americana. Dal Brasile allora possiamo avvicinarci alla nostra Europa risalendo, per comparazione, al paese da cui la sua storia moderna ha avuto origine e di cui ha importato la lingua: il portoghese. Portogallo e Brasile appaiono oggi due paesi estremamente diversi, se non opposti, come capita con l’UK e le sue colonie, hanno sviluppato un rapporto problematico negli anni, nonostante siano entrambi profondamente legati alla religione cattolica e siano entrambi passati attraverso la realtà di diverse dittature proprio nel momento in cui sono affacciati alla modernità. Questo aspetto si è riflesso anche nelle modalità in cui i due paesi hanno gestito l’emergenza pandemica, che pure li ha contrapposti: il Portogallo ponendosi come modello di eccellenza europea legato a un percorso governativo che ha privilegiato una politica giovane e dinamica, premiata da una grande ascesa economica e una sovraesposizione turistica negli ultimi anni, contro il Brasile invece che si è allineato al negazionismo di personaggi affini al presidente in carica Bolsonaro ed è in visibile crisi economica e finanziaria, a seguito di un periodo invece che aveva visto una rapida impennata e promosso speranze.
Una cosa che mi affascina molto di questa contrapposizione, è che anche in questo caso, come per Regno Unito e Stati Uniti, sia la medesima lingua a rendere due paesi stranieri. Fernando Pessoa, credo universalmente riconosciuto come il più grande scrittore in lingua portoghese, scriveva due cose molto importanti: la prima, che riconosceva la sua patria nella sua lingua. Un concetto meraviglioso e incontestabile, in cui personalmente mi riconosco al 200% (anche a dispetto del fatto che molti amici mi dicono che quando mi esprimo in inglese sembro più felice, e magari pure a Pessoa, che neanche a farlo apposta, aveva pure vissuto un lungo periodo nel Sudafrica di Musk e Blomkamp): il mio essere italiano, che ho esplorato a fondo nella Prospettiva precedente, è tutto nella mia lingua, nel mio modo di esplorarla ed esplorarmi attraverso essa, nel fatto che è l’unica lingua al mondo in cui riconosco interamente la pienezza del mio essere, della capacità di descrivermi, di descrivere ogni parte di me. La lingua, per molti di noi, è l’amore più grande è la forma più piena in cui esprimiamo la nostra cittadinanza.
C’è però un altro fattore altrettanto importante che è legato ad un’altra espressione, questa più celebre, di Pessoa: la proprietà di ognuno di noi di contenere moltitudini. Allo stesso modo, la medesima lingua può esprimere molteplici culture, anche opposte e rendere due paesi che parlano la stessa lingua incredibilmente distanti. Tra queste moltitudini è contenuta la nostra capacità di esprimere il nostro io in lingue diverse, che è in realtà quello di inventare o scoprire dei nuovi io legati alle possibilità di espressione delle lingue in cui siamo capaci di esprimerci. Infatti, se da una parte padroneggio il mio italiano al punto da riuscire a esprimere ogni singola parte di me nella lingua in cui mi riconosco, l’italiano ne esprime anche i limiti, perché una nuova lingua individua parti di noi che di cui non eravamo a conoscenza prima di incontrarla, così come quando viaggiamo scopriamo nuovi desideri e nuovi mondi che ci erano in precedenza sconosciuti. Questa è la meraviglia più grande dell’imparare nuove lingue, e il motivo per cui, quando entriamo in contatto con una lingua sconosciuta, subito emergono parti di noi che diventano traducibili unicamente in quella lingua. Ecco che arriviamo vicini al punto a cui volevo arrivare: guardare una serie distopica e riflettere su una lingua (che personalmente parlo molto male e che da anni cerco di migliorare), ossia il portoghese, si rivela ancora una volta un modo per riflettere su noi stessi, e non soltanto perché mi è capitato di vedere questa serie in un periodo in cui abbiamo avuto poche possibilità di fare altro. Allora, la distopia comincia a diventare di suo un sistema semiotico di riferimento attraverso cui lingue diverse possono comunicare.
C’è poi un ulteriore, ultimo punto, che riguarda il fatto che spesso dimentichiamo che quello che guardiamo possa riguardarci in modi più profondi di quanto immaginiamo. Chissà perché ci è così facile immaginare gli italoamericani, riprendendo per esempio gli esempi di John Fante e Claudia Durastanti dalla scorsa Prospettiva, ma ci dimentichiamo altrettanto facilmente che se il Brasile è una “scoperta” portoghese, è anche il paese sudamericano, insieme all’Argentina, che ha accolto il maggior numero di italiani quando gli americani hanno bloccato le quote di immigrazione a partire dal 1924, soprattutto a partire dagli anni Sessanta in cui anche il Brasile viveva il suo boom economico. Ci dimentichiamo che in Brasile, come in Argentina, vive la più grande popolazione italiana al di fuori dai nostri confini nazionali.
Ci dimentichiamo anche, o forse la notizia non è proprio giunta, che il papà di Bolsonaro, nello specifico, è un emigrato italiano, che le telenovelas brasiliane sono state il luogo comune della cultura brasiliana che abbiamo avuto intorno fin dalla nostra infanzia, e ci stupiamo quando all’improvviso, leggendo i decreti che accompagnano la riapertura intorno a noi, ci accorgiamo di vivere in un paese in cui la cultura della famiglia è molto più radicata di quanto pensassimo. Questo succede perché non abbiamo mai pensato di affrontarne una problematizzazione accurata quale quella che troviamo in una serie TV quale 3%. Meno male che Netflix, oltre a trasmetterci brutte abitudini quali il bidge-watching, ci da anche accesso a contenuti di livello profondo, e che mettendoci un’altra volta di fronte all’altro ci permette di vedere meglio ciò che non vogliamo ammettere di noi stessi. Ci accorgiamo che scavare dentro Netflix regala soddisfazioni immense, perfino maggiori a quelle di quando ci imbattiamo nel film Ricomincio da tre di Massimo Troisi. Magari un giorno, facendoci capire che tutti guardiamo allo stesso presente, se non allo stesso futuro, ci aiuterà anche a seppellire in modo definitivo il patriarcato.