II. Le ragioni sbagliate e quelle giuste: Due o tre cose che credo di aver imparato sugli italiani e che leggendo Claudia Durastanti e John Fante durante la pandemia ho capito essere sostanzialmente vere
Ho cominciato a rimandare il secondo appuntamento con questa rubrica più o meno dal momento in cui è uscita per la prima volta, il 19 febbraio, un mercoledì. Ho scritto e riscritto un possibile secondo articolo per due mesi esatti, Penelope e Ulisse insieme, completandolo il 19 aprile, una domenica. Un paio di giorni fa. Intanto, il mio mondo personale cercava di riconfigurarsi a fatica intorno a una serie di eventi significativi, e di riallinearsi con ancora più fatica intorno quello che ci circonda, che è stato stravolto a livello globale. In queste ormai sei settimane di reclusione, insieme a tante cose mi è diventato chiaro il significato più profondo delle parole che neanche a farlo apposta, una delle scrittrici che trovo più significative del nostro tempo mi aveva scritto qualche settimana prima, sulla mia copia del suo libro che ho amato di più: “A Frank, per il nostro tempo personale che si fonde col tempo la fuori”. L’autrice è Claudia Durastanti, oggi meritatamente al centro della nostra scena letteraria grazie all’intenso memoir La straniera, e di cui proprio oggi esce la riedizione del suo primo romanzo, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra. La dedica è stata scritta però su A Chloe, per le ragioni sbagliate, il suo secondo libro, che ha un titolo che già di suo suona come una dedica trascritta su un regalo per un’amica affezionata. L’avevo incontrata al Circolo dei Lettori durante la presentazione di un libro di un’autrice torinese che lei aveva introdotto, su cui tornerò presto. Spero.
Ha senso scrivere una rubrica che si pone programmaticamente di essere inattuale, nel momento in cui qualsiasi cosa che non parli di queste lunghissime giornate irreali finisce per esserlo automaticamente, mi sono chiesto a lungo. Abbiamo il diritto di essere inattuali e cercare vie di evasione attraverso mondi possibili, quando ci confrontiamo ogni giorno con la possibilità che i mondi che conosciamo siano tutti impossibili, convivendo con l’angoscia di non poter tornare alla routine che abbiamo costruito faticosamente e consolidato negli anni? Abbiamo il diritto di essere inattuali pensando a come l’evoluzione di questo male misterioso e invisibile che ci circonda ci condiziona e ci cambia, al riparo al sicuro delle nostre case, mentre fuori si muore? Di fronte a questa situazione a noi totalmente sconosciuta, a noi che non combattiamo il virus in prima linea perché non siamo né medici, né infermieri, né farmacisti, né negozianti, né coinvolti nella filiera dei servizi primari che ci permettono di vivere confortevolmente in casa, e infine, neppure infetti, tutte le ragioni sembrano sbagliate.
Eppure, la mia (relativamente esigua) esperienza di scrittura di questa rubrica e di lettura di Durastanti mi dicevano che forse valeva la pena, e ripensare a quella dedica su quel libro mi ha rimesso sulla giusta via per capire quello che volevo davvero scrivere. A sorpresa, entrambe mi hanno diretto verso La strada per Los Angeles, che è il titolo italiano del romanzo più travagliato e posposto dello scrittore italoamericano John Fante, un autore che è diventato un classico raccontando tutte le sue ragioni sbagliate, senza tenersene nessuna. Lo stesso romanzo appena citato è il suo romanzo più sbagliato: sarebbe dovuto essere il primo volume del ciclo di Arturo Bandini, ma è stato sostituito dal ben più celebre Ask the Dust – Chiedi la polvere – che è perfino arrivato a Hollywood, per quanto in una trasposizione indegna, celebrando non solo il sogno di scrittore inseguito da Fante in una vita intera, ma anche quello di varcare le porte di Hollywood come scrittore piuttosto che sceneggiatore, ruolo su cui aveva ripiegato. Avviato nel 1933, terminato nel 1936 e pubblicato per la prima volta solo nel 1985, pochi anni dopo la morte di Fante, e poco dopo che Chiedi alla polvere, scritto nello stesso periodo e pubblicato, questo si, nel 1939, è riemesso nel 1980 per essere riconosciuto finalmente quale il classico che è. Fante è morto nel 1983, un paio di anni dopo essere diventato finalmente lo scrittore che voleva essere, il più accreditato cantore della città che ha amato, ma prima di vedere il suo primo romanzo pubblicato. Tra il manoscritto e la sua pubblicazione sono trascorsi cinquant’anni.
Questo ci dice innanzitutto che per quanto una buona parte della popolazione mondiale adori pianificare la propria vita, non sempre i nostri piani vanno in porto come desideriamo, e a volte anzi crollano del tutto in pochi giorni: quello che ci ha travolti, è stato vedere il mondo chiudere intorno a noi rapidissimo. Dunque non è sbagliato accettare di poter avere qualche difficoltà a riconfigurare le nostre vite, se all’improvviso siamo travolti da un imprevisto che in pochi giorni ci blocca per quasi due mesi. Ma interrogarmi su Fante non mi ha portato a notare semplicemente questo, anzi ha avviato un flusso di coscienza molto più profondo che si è diramato in direzioni del tutto inaspettate. Innanzitutto, c’è da evidenziare che Fante condivide con Durastanti un cruciale background, anche se le loro storie sono radicalmente diverse, anche perché si svolgono in tempi molto distanti: sono entrambi nati negli Stati Uniti, da famiglie di origine italiana.
Per questo motivo, entrambi gli autori hanno esperito senza possibilità di scelta la necessità di confrontarsi con il mondo italiano all’interno delle proprie case – lo spazio della loro famiglia – e integrarlo con quello americano che si trovavano a incontrare ogni volta che ne uscivano fuori. In modo diverso, ma che incontra più di qualche analogia col nostro, e non solo nelle realtà degli italiani che vivono fuori dal nostro paese, entrambi hanno vissuto un mondo dentro le loro case e uno fuori, che era difficile mettere in contatto. Il più celebre luogo comune ci porterebbe a immaginare il mondo interno alle nostre case come un rifugio, dove siamo protetti dalla nostra famiglia, laddove invece il mondo esterno ci impone di confrontarci con una realtà esterna e sconosciuto – per amore di metafora, possiamo paragonarli, in questo specifico contesto, al nostro rifugio domestico e alla realtà in cui vive il virus.
Eppure, nessuno più efficacemente di Durastanti e Fante ci ha dimostrato che il mondo dell’interiorità casalinga e del confronto con la nostra famiglia può essere invece molto più difficile da affrontare del mondo di fuori. Ecco come il nostro vivere interiore ribalta la prospettiva del dentro e del fuori, e sebbene le case ci trasmettano sicurezza, almeno relativamente alla salute fisica, al contrario la clausura ci apre a tutti i traumi che abbiamo interiorizzato e che ci pone nella necessità di confrontarci con tutto quello che mediamente lasciamo dentro casa quando usciamo, tutto quello che nelle nostre routine siamo abituati non portate insieme a noi. In queste settimane in cui il mondo è stato radicalmente riscritto più o meno globalmente, dunque, noi veniamo riscritti individualmente in modo del tutto irrelato e indipendente dalle coordinate dettate dal virus: scopriamo la nostra difficile solitudine individuale isolandoci dalla spinta globale che il mondo impone alle nostre vite.
Anche il ritorno col pensiero a Fante è scaturito da un incontro occasionale, mentre frugavo alla ricerca di cose da leggere nella mia libreria: quello con la mia copia della prima edizione Einaudi di Ask the Dust del 2004, che gli amici mi regalarono qualche mese prima di laurearmi in letteratura italiana contemporanea. Tra il momento in cui ho letto svogliatamente quel libro che mi aveva convinto poco e quello in cui mi sono trovato a passeggiare intorno a Bunker Hill sentendola casa, ripetendo in mente le parole con cui Bandini descrive il suo desiderio di possedere Los Angeles – “Los Angeles, give me some of you!” – sono passati quindici anni. In quindici anni sono successe molte cose, e certo una delle più inaspettate riguarda il fatto che mi sia trovato non solo a rileggere Fante, ma a scrivere di Fante, a presentare Fante a convegni negli Stati Uniti, a vivere nella sua Los Angeles. In quanto modi possiamo accettare che il tempo si dilati? Innumerevoli. Così mentre il mio tempo personale si espandeva, cresceva il mio insospettabile amore per Fante.
Se non avessi passato questo mese recluso in casa, probabilmente non avrei ripreso in mano questa vecchia copia introdotta da una brutta introduzione di Baricco e non ci avrei rivisto dentro un perplesso studente che sta per laurearsi e si chiede perché Fante piaccia tanto agli italiani. A quel punto, la seconda uscita di questa rubrica si è scritta praticamente da sola, in realtà riprendendo e riscrivendo l’ultima pagina di un diario della quarantena che ho portato avanti sul mio profilo Facebook. Perché è qui che volevo portarvi: cosa un libro apparentemente insospettabile – inattuale, come da programma – può dirci molto del presente che viviamo, e rivelarsi il nostro più solido alleato nel tentativo di sopravvivere allo stato di irrealtà in cui ci svegliamo da ormai due mesi, aiutandoci a non perdere il contatto con la realtà. Leggere dunque Fante per capire cosa mi stava succedendo intorno, e colmare – per le ragioni sbagliate, come scrive Durastanti – lo iato tra il mio spazio personale e quello delle persone recluse nelle case intorno. Un’attività già di suo inattuale come la lettura, resa ancora più inattuale dal modo in cui cerchiamo di restare agganciati al nostro mondo attraverso ore di videochiamate e collegamenti in streaming, nonché rivolta a un libro scritto quasi cento anni fa.
Ci sarebbero innumerevoli ulteriori punti di inattualità da considerare. Per esempio, quando apriamo un libro di Fante, lo sentiamo italiano o americano? Scrive Elisa Bordin, in Un’etnicità complessa: Negoziazioni identitarie nelle opere di John Fante, un bel libro sull’autore pubblicato da pochissimo, che è proprio in questo paradosso che si coglie l’attualità di Fante, nonché in realtà la sua più viva inattualità, che in effetti potrebbe riguardare anche le ragioni del successo dell’ultimo libro di Durastanti. Ma su questa meravigliosa qualità della Straniera ho parlato in un’altra occasione. Qui vorrei condurvi al cuore del mio argomento: che ciò che piace tanto di Fante ai lettori italiani, al punto da renderlo un autore molto più letto da noi che negli Stati Uniti, è che Fante, almeno quanto Durastanti, ci riguarda in quanto italiani. Aprire le sue pagine ci riporta subito a una certa idea di cultura italiana diciamo d’asporto, che ho incontrato nei dipartimenti di italiano di diversi paesi, partecipando a sessioni di lavoro che si sono interrogate – e si interrogano tutt’ora – sull’italianità, e sulla natura di quello che spesso viene definito “eccezionalismo italiano”. Una definizione che all’inizio ho accolto con non poche perplessità, ma in cui ho cominciato a riconoscere un senso, poiché individua dei tratti che sono difficili da contestare. Ci sono tratti di palese italianità in Fante che risuonano con quelli che il lettore italiano riconosce come nostri. Proviamo a metterli a fuoco.
Innanzitutto, siamo un popolo di narcisisti. Un narcisismo in cui mi riconosco personalmente, e che non è privo di una certa contraddittorietà. Infatti, quando più o meno dodici anni fa ho cominciato a spendere prolungati periodi di vita fuori dai confini patri, ho cominciato anche a frequentare persone che a vari livelli mi proponevano la propria immagine della nostra identità vista da fuori. Costretto a convivere con un’immagine della mia identità nazionale che sentivo non appartenermi, ho sentito il bisogno di provare a vedermi da fuori anche io e a capire come era possibile evitare di riprodurne i caratteri che dall’estero appaiono così spassosi e che io trovavo imbarazzanti. Anche questo fa parte del nostro narcisismo: non riuscire ad accettare che la mia “bella figura” personale coincidesse con una “brutta figura” legata alla mia appartenenza. Questo lo troviamo anche in Fante, in cui riconosciamo anche la nostra identità “americana” acquisita, che mi spingeva invece ad allontanarmi da casa e imporre la mia personale idea di me. All’inizio trovavo anche questa cosa piuttosto semplicistica, ma poi ho capito che c’è.
Questo aspetto già di suo riguarda anche il nostro rapporto con il signor SARS-CoV-2. Per questo motivo, quando vediamo che Francia, Germania, Spagna o altri paesi procedono con misure diverse dalle nostre nella gestione di questa pandemia, piuttosto che cercare di capirne i motivi ci incazziamo, perché mettono in dubbio la nostra scelta, ci feriscono in questo narcisismo nazionalista che vorrebbe che ognuno facesse la stessa cosa nostra in ogni città del mondo. Ma in questo atteggiamento si riflettono anche altri due aspetti della nostra cultura nazionale. Una è la profonda mancanza di autostima, che ci viene trasmessa costantemente fin dal sistema scolastico e ci forma come obbedienti sudditi a cui viene chiesto non di innovare e di interpretare, ma di ripetere e perpetuare una certa tradizione. L’altra è una tendenza all’omologazione culturale che ci è stata trasmessa prima dalla chiesa e poi dal consumismo americano, prima attraverso la televisione e oggi attraverso la venerazione per i cellulari che ci contraddistingue, che hanno preso il posto della nostra quotidiana comunicazione con dio.
Tuttavia la più grande e suprema caratteristica che ci riguarda e ritroviamo in Fante, è quella di essere un popolo tendente all’autoindulgenza e incapace di prendere sul serio qualsiasi cosa. La cosa più devastante è che di questo aspetto ce ne rallegriamo, amiamo soprattutto la nostra incapacità di rispettare le regole, che ancora una volta ci fa apparire buffi ai cugini europei. Eppure, e questo certamente conferma che il background culturale italico riguarda anche chi scrive, è che personalmente trovo ingiusto, se non impietoso, attribuire questi tratti alle persone come se fosse una colpa. La popolazione italiana per decenni è stata infantilizzata dalla presenza ossessiva della chiesa prima e attraverso un’ideologia dell’edonismo di senso opposto poi, diffusa televisivamente, entrambe confluite direttamente nella propaganda politica. Se da una parte mi pare ingiusto scaricare interamente la nostra incapacità di aderire ai decreti su chi prende decisioni per noi, mi pare altrettanto insensato aspettarsi che un popolo abituato a fare il cazzo che gli pare dall’oggi al domani scopra l’importanza delle regole e del comportarsi come una comunità.
Lo sa benissimo chi ci governa, che infatti ci ha guidati attraverso la pandemia fornendoci indicazioni vaghe, mediante una serie di decreti che ci hanno invitati un po’ a essere ristretti e un po’ a fare come ci pareva, così da lasciarci la possibilità di contestare qualcosa nel caso ci trovassimo in torto di fronte a un vigile o un agente di polizia. Bisogna inoltre tenere conto di quello che percepisco come un problema di alfabetizzazione di base dell’italiano medio, in relazione alla sua capacità di interpretare alla lettera i messaggi, di cui i decreti pure hanno tenuto conto. Mi torna in mente di nuovo Los Angeles, la prima volta che mi sono messo al volante dell’auto di una amica italiana che mi ha fornito le poche indicazioni necessarie prima di mettere in moto: “Quando c’è lo stop ti devi fermare. Ma non come facciamo noi, ti devi fermare davvero, bloccare, immobile. Schiaccia il freno fino in fondo. Poi conti fino a tre, e se non vedi nessuno lo alzi”. Se il decreto dice che non bisogna assolutamente uscire di casa senza motivo, si è sicuri che sei italiani su dieci penseranno che possono uscire un po’ meno, tre andranno a cercarsi documenti che certificano false necessità di uscire, e solo uno, etichettato dai più come “coglione”, farà quanto gli viene detto.
Mi sembra anche appropriato sottolineare che scrivo queste cose dei miei connazionali non perché mi sento pure io un odiatore di me medesimo, qualità di cui spesso è stato accusato Fante, né perché sento di odiare il paese in cui sono cresciuto o penso che gli altri popoli siano in assoluto migliori, ma perché è principalmente tra gli italiani che vivo da decenni e li conosco certamente meglio di inglesi, tedeschi o americani, rispetto ai quali non potrei mai permettermi di descriverne gli atteggiamenti con tale lucidità e fermezza. Inoltre, lo faccio perché come autori quali Fante, Durastanti e Pasolini, credo nel profondo valore dell’autocritica. Né credo che quanto scritto possa essere preso come una bibbia, quanto piuttosto una libera interpretazione che non ha pretesa di avere verità in mano, né nomi, né prove. Posto che ci sono sicuramente tante cose che possiamo imparare da altre nazioni: per esempio, avremo sempre un po’ di maniere da imparare da inglesi e americani.
Ci sono tante cose che possiamo imparare se viviamo questo momento di reclusione nella nostra interiorità come uno spazio in cui interrogarci e capire come vivere meglio i nostri difetti, per prima cosa imparare a vederli, perché se non siamo capaci di ammetterli, non c’è possibilità di poterci migliorare. Così come nessuno può convincerci che stiamo vivendo in clausura, a meno che non ce ne convinciamo noi. Quindi non credo che le settimane che ho trascorso principalmente ascoltando il suono innaturale del silenzio del mio quartiere di Torino siano state buttate via. E ritengo che evadere attraverso letture che mi hanno portano in altri mondi mi abbia aiutato di più a gestire questa quarantena che immergermi totalmente nei dati e nelle ricerche virologici, a cui comunque ho dedicato altrettanto spazio. Da quest’ultima attività ho capito, come più o meno tutti, di non aver capito granché del virus. Ma dalla seconda, credo di aver capito meglio le persone che ho intorno. Dunque ringrazio di essermi potuto permettere il lusso dell’inattualità, come antidoto a questa difficile attualità.