|Prospettive inattuali contro la cultura della normatività|
Dunque, siamo arrivati alla fine di un altro stupido e lurido anno. Con un annuncio simile, cinquant’anni fa Don DeLillo si presentava ai suoi lettori nel suo libro d’esordio, destinato a cambiare la storia del romanzo statunitense. Il titolo del libro è Americana. Si tratta di uno dei romanzi meno amati dell’autore in realtà, soprattutto non molto amato dalla critica, che lo ha sempre ritenuto al di sotto di quelli successivi, mentre altri lo hanno spesso difeso per il solo fatto di essere stato troppo sottovalutato. Si tratta del libro che mi sono fatto autografare dall’autore, una volta che ce l’ho avuto di fronte a Parigi, durante una conferenza a lui dedicata. È uno dei tre libri autografati nella mia libreria, a fianco a una pallina da baseball che ha fatto pure lei un lungo viaggio nella storia pur senza apparire nella storica partita tra Dodgers e Giants che apre Underword.
Il nostro 2021 si è aperto con The Silence, il volume più recente di DeLillo, uscito a febbraio per Einaudi con traduzione di Federica Aceto, un libretto smilzo ma intenso come quelli a cui ho dedicato le mie prime tre Prospettive Inattuali durante il nostro secondo anno di pandemia, anche se in questo caso parliamo di fiction. I lettori abituati a DeLillo possono leggerlo in una sera, per poi rileggerlo costantemente per il resto dell’anno, come ho fatto io. A sigillo di cinquant’anni di narrativa e in risposta alle migliaia di pagine scritte –si dice che l’autore continui a scrivere a macchina ogni suo lavoro – la scelta di intitolare il suo libro al silenzio ci dice molte cose di quest’anno che oltre a stupido e lurido, è stato decisamente impegnativo, eppure non credo ci abbia fatto scoprire niente che DeLillo non ci avesse già detto cinquant’anni fa. Ma certo, chi poteva aspettarsi che un anno introdotto da un libro da DeLillo potesse essere un anno pacifico.
Il 2021 è stato un anno impegnativo e proprio per questo ci tengo a non mancare la mia ultima prospettiva, diventata perfino più inattuale delle precedenti se consideriamo che intanto risiedo molto lontano anche geograficamente dal posto in cui ho scritto le prime tre. Ma Lacan ci insegna che i discorsi sono quattro, quindi ho pensato fosse il caso di chiudere il secondo quartetto prima che l’anno finisse. In effetti, ha senso che le prospettive si siano interrotte quando abbiamo cominciato a uscire liberamente e ci eravamo ormai convinti di aver sconfitto il virus, per tornare in questa congiuntura in cui il nemico invisibile che ci ha tenuti in ostaggio negli ultimi due anni è tornato all’improvviso protagonista, rapidamente come suo solito e assicurandoci che anche questo Natale sia all’altezza delle descrizioni di DeLillo. Sarebbe ingeneroso tuttavia limitare i bilanci di fine anno alle evoluzioni pandemiche, perché in Italia il 2021 si è segnalato per aver riportato un dibattito culturale di una certa vivacità sui nostri schermi, a partire da una serie di volumetti apparsi in libreria.
Non è mia intenzione valutare in questo contesto la qualità di tale conversazione, quanto prendere atto che dal basso, una serie di personalità non identificate hanno sentito l’esigenza di prendere voce e affrontare argomenti di un certo peso, che erano rimasti abbastanza ai margini del circuito culturale mainstream e che dal circuito di blog, podcast, webinar sono passati direttamente in libreria, diventando voci importanti di un’Italia che all’improvviso ha pensato che il cambiamento fosse a portata di mano, prima di impattare violentemente contro l’ennesimo affossamento del decreto Zan in parlamento. A proposito dell’importanza della diffusione di un discorso queer in Italia, ho parlato del Canone Ambiguo di Luca Starita, che nei mesi successivi ha affiancato al suo volume uno spettacolo teatrale e una serie di letture di Pier Vittorio Tondelli in tandem con l’altrettanto giovane scholar Olga Campofreda, che si è segnalata a sua volta per la pubblicazione di una monografia importante dedicata a questo autore altrettanto cruciale per Starita, Dalla generazione all’individuo: Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (e a questo proposito, tra i miei risultati dell’anno trascorso c’è aver finalmente letto l’immenso Camere separate). Abbiamo parlato di Jennifer Guerra, che intanto si è sposata, traducendo nella pratica la possibilità di abbinare la più tradizionale delle cerimonie all’attivismo femminista e all’emancipazione dai luoghi comuni. Abbiamo parlato di Nadeesha Uyangonda, che si è segnalata per aver spostato la conversazione del colore parlando esplicitamente di razza riuscendo a non mettere in fuga l’uditorio mainstream, ricordando che di gruppi discriminati per il colore della pelle, in Italia, ce ne sono numerosi. L’attenzione che le opere di questi tre autori hanno ricevuto nel secondo semestre dell’anno è garanzia che un’istanza di cambiamento nel nostro paese è davvero percepibile.
Eppure questa prospettiva, inaugurata da un autore come DeLillo, che giovane non è anche se lo era quando ha scritto Americana, non è dedicata ai talentuosi giovani che cercano di trovare voce in un paese in cui è così difficile farsi ascoltare prima dei cinquant’anni, bensì proprio ai vecchi. Mi sembra giusto che almeno una prospettiva su quattro bisognava lasciargliela, proprio per coerenza nell’inclusività. Uno di questi vecchi, nel 2014, vinceva lo Strega scrivendo: “Resistere non serve a niente… il sangue dei vecchi non lo vuole nessuno”, una frase che ha dato il titolo al suo romanzo più acclamato dalla critica, Resistere non serve a niente (314), all’estremo opposto dunque di Americana per DeLillo. Si tratta di Walter Siti, che ha variamente, ma profondamente, riflettuto sull’impegno attraverso un gioco sofisticatissimo di rimbalzi e rifrazioni autofinzionali nei suoi romanzi, ma ha deciso di impugnare il discorso senza nascondersi nel saggio Contro l’impegno: Riflessioni sul Bene in letteratura per Rizzoli. L’altro nome protagonista di questa prospettiva è quello di Carla Benedetti, che alcune settimane prima di Siti, nello stesso periodo in cui uscivano i libri di Starita, Guerra e Uyangoda, ha pubblicato La letteratura ci salverà dall’estinzione per Einaudi.
Al di là del formato agile che li avvicina ai libri di Starita, Guerra e Uyangoda, i volumetti di Siti e Benedetti si distinguono per essere scritti da due critici e accademici piuttosto tradizionali nel percorso, per quanto originali nell’approccio alla disciplina, affiliati a lungo a prestigiose istituzioni universitarie e che pubblicano per editori che certamente non possono essere affiliati all’editoria indipendente, perciò il pulpito da cui parte la loro predica è decisamente più istituzionalizzato rispetto agli esempi che gli ho fatto procedere. Entrambi gli autori si sono concentrati, con punti di partenza e di arrivo molto diversi e coerenti con le loro diverse posizioni, sull’analisi dell’impegno intellettuale nella letteratura: il primo, per investigare le contraddizioni con cui storicamente gli scrittori hanno espresso le loro idee in relazione alle modalità dell’impegno letterario contemporaneo; la seconda, per mettere a fuoco un’urgenza di tipo superiore e gli autori che se ne sono fatti voce, quindi verificare più nel concreto l’impatto della voce degli autori sugli sviluppi di una coscienza ecocritica.
Soprattutto Siti, fin dall’introduzione del suo volumetto sembra affermare le proprie idee in modo opposto ai giovani autori che hanno animato le mie prime prospettive. Avversando qualsiasi prospettiva intersezionale, Siti apre il suo testo citando celebri esempi letterari che al contrario hanno esibito sulla pagina senza imbarazzo episodi di misoginia, razzismo, insofferenza per ogni forma di diversità, discorsi che nella nostra epoca tendente sempre più alla censura del politicamente scorretto provocano perplessità in modi che nel periodo in cui sono stati concepiti sarebbe stato ritenuto impensabile. Eppure Siti coglie un punto importante, quando sottolinea: “Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti forti di una egemonia culturale mainstream” (12). E ancora: “La preoccupazione principale dei nuovi censori è pedagogica: si vuole evitare che la letteratura abbia un harmful impact, un impatto dannoso sui lettori”, auspicando un “mutamento delle coscienze sui tempi lunghi” (12).
Non c’è dubbio, che tra il messaggio positivo dei nuovi intellettuali – quelli che, come Guerra, sostengono l’etica affermativa tramandata da Spinoza e Rosi Braidotti – e quello invece di Siti che sostiene l’importanza di poter dire il male per saperlo distinguere, si apra un abisso. Eppure, per quanto le posizioni siano diverse e difficilmente riesca a immaginare Guerra e Siti seduti a un tavolo a discutere questi argomenti insieme, da due punti diversi sostengono proprio la contraddittorietà di approccio su cui si costruisce la tensione alla base dell’impegno intellettuale, la capacità di distinguere quello sfasamento tra i livelli del reale che già Pirandello aveva teorizzato nel suo umorismo, e di cui un autore a noi più vicino, che sta per entrare nel suo primo centesimo anniversario dalla nascita tra poche settimane, si era fatto carico per l’intera opera, un autore che curiosamente, contemporaneamente, unisce e divide i medesimi nomi su cui mi soffermo in questa Prospettiva: Pier Paolo Pasolini.
Torniamo, attraverso Pasolini, a Siti, che ha scritto a lungo di Pasolini, curandone anche una criticatissima edizione critica delle opere per la serie dei Meridiani Mondadori, tra il 1998 e il 2003. Di Pasolini, Siti sembra abbia ereditato nei modi più espliciti la celebre “contraddizione” che ha ispirato il suo pensiero fin dalle prime opere poetiche. Ha origine dalla contraddittorietà, il meccanismo argomentativo alla base del titolo del romanzo di Siti – negare l’utilità dell’atto di “resistere” per poi mostrarla sulla pagina, nel concreto della letteratura – che mi pare risieda il titolo Contro l’impegno, un aspetto che la maggior parte dei lettori sembra aver sottovalutato. Mi pare piuttosto che l’obiettivo che Siti si è preposto in questo volume, e gli esempi forniti dall’autore ne sono una prova – da Popova a Sartre, da Roncaglia a Baricco, da Orazio, a Baudelaire, a Bauman, da Saviano a Carrère – sia, come nella fiction, quello di educare alla contraddizione, e dunque alla complessità, a un impegno che risiede primariamente nella capacità di vedere il male e saperlo riconoscere, piuttosto che fare finta che non esista. Il mio invito, in questa sede, è indubbiamente quello di cimentarsi nelle complessità dell’argomentazione di Siti, difficile da contenere in poche righe, per poi tornare qui e provare a rileggere il tutto in luce di questa possibilità di rovesciare tutto nel nome della contraddizione, di quel sentimento del contrario a cui ci stiamo progressivamente disabituando, come qualche anno fa scriveva Jonathan Coe in un articolo pubblicato sull’Internazionale e che ho ripreso in questo articolo più tradizionalmente accademico.
La letteratura ci salverà dall’estinzione di Benedetti affronta l’impegno in modo meno astratto, mettendo a fuoco l’urgenza ecocritica che l’autrice riscontra in una serie di autori che negli anni hanno segnalato una sensibilità per questa preoccupazione, su tutti il già citato Pasolini, insieme a Italo Calvino, per i quali prende in prestito un’espressione di Gunther Anders, quella degli “acrobati del tempo”: “Oggi, a parte due o tre ‘acrobati del tempo’, non c’è nessuno che sia capace di mettersi nei panni di chi sarà domani (per non parlare di quelli che domani non ci saranno più), e di anticipare il loro sguardo verso il passato (e quindi anche verso il nostro oggi)” (59). In realtà, se nel caso di Siti è la letteratura con la lettera maiuscola sotto accusa in Contro l’impegno, e nel caso di Benedetti, da Omero a Amitav Gosh, la capacità degli scrittori di percepire e anticipare il cambiamento, entrambi stanno riproponendo con altre parole un discorso critico che hanno proposto dall’avvio della loro professione accademica e che li ha distinti come due critici unici nel contesto della letteratura italiana: quello di educare alla complessità.
Poli opposti in uno scontro che va avanti per decenni, avente prevalentemente come oggetto la rispettiva lettura dei testi di Pasolini, Siti e Benedetti finiscono dunque per incontrarsi sullo stesso piano che è quello in cui mi pare di riscontrare – e qui mi sento più vicino a Siti che a Starita e Guerra – come maggiore difficoltà da parte della generazione contemporanea, quella di riuscire a esprimere la complessità: negare per affermare, descrivere tra le righe, raccontare al di là della superficie, tutte cose che nel passaggio generazionale sembrano essere messe da parte affinché nessuno si senta colpito o discriminato. Ciò nonostante, a due generazioni di distanza, Starita, Guerra e Uyangoda, Benedetti e Siti sono personalità che hanno definito il loro impegno intellettuale nell’opposizione al canone e in una prospettiva inclusiva, nei tentativi, per quanto diverso sia il loro approccio, di allargare i confini angusti della dimensione della letterarietà per includere autori quali Pasolini, che si sono distinti per la necessità di un canone a propria misura per poter rientrare nel contesto del mainstream letterario.
Resta palese che né Siti, ne probabilmente Benedetti, userebbero lo schwa nei loro testi, per dirne una (ma potrei sbagliarmi). La loro dialettica segue una argomentazione molto diversa da quella di questi giovani autori. Anagraficamente collocandosi a una generazione e mezza di distanza dagli agguerriti autori su cui mi sono soffermato, Siti e Benedetti parlano una lingua diversa perché è la lingua che si è parlata quando erano loro ad avere venti o trent’anni, eppure mi sembri che al riparo dai social e dallo streaming, con modalità specifiche della loro posizione, riescano a continuare ad avere un impatto notevole sulla cultura italiana, tanto è che i discorsi sui loro due volumi hanno animato il dibattito digitale con intensità pari a quella dei più giovani autori che vi appartengono di diritto.
Ma in primo luogo, avendo consacrato la loro figura di critici lavorando su un autore dirompente e che ha fatto a botte col canone per tutta la sua esperienza, in vita e in morte, quale Pasolini, scontrandosi profondamente sull’approccio da cui descrivere la sua specificità, Siti e Benedetti hanno dimostrato di essere cresciuti in un’altra Italia, che è appunto quella di Pasolini – entrambi avevano un’età vicina a quella di Starita, Guerra e Uyangoda all’uccisione dell’autore – e in una diversa temperie culturale che non aveva ancora incontrato un certo tipo di discorso politicamente corretto. Sono vissuti in un mondo in cui l’impegno era un imperativo di chi scrive e in cui si poteva dire più o meno tutto purché ci si esponesse, certo non senza conseguenze, quale quello degli anni Settanta, di cui hanno incarnato la lezione.
Tutti e due sono nati prima di Tondelli, per fare un altro esempio, e vi sono sopravvissuti, passando per gli anni Novanta e vivendo parallelamente il riflusso in politica e il passaggio dell’Italia da paese di emigrazione a quello di immigrazione. Si sono trovati investiti dalla transnazionalità sperimentandone in prima persona la dislocazione ma anche il respiro internazionale. Hanno vissuto un’altra università e un’altra dimensione culturale, in un’Italia meno incline al luogo comune, seppure non esattamente incline all’apertura mentale e comunque ben radicata nella prospettiva borghese. Hanno vissuto, e qui torniamo al discorso in apertura, nello stesso mondo di cui DeLillo, a fianco a Philip Roth, più o meno nello stesso periodo in cui anche Pasolini era ancora attivo, mostrava i segni di contraddizione di cui oggi percepiamo gli sviluppi recenti, e se la letteratura davvero ci salverà sarà perché insieme nelle loro divergenze, autori quali Siti e Benedetti hanno spianato la strada affinché autori come Starita, Guerra e Uyangoda possano oggi esprimere la loro voce, per quanto dicano cose che appaiano in contraddizione, come è proprio di una sana e mai pacitifica dinamica intergenerazionale.
L’inattualità di Siti e Benedetti permette di vedere l’attraversamento della storia del paese anche senza affacciarsi in modo consapevole all’intersezionalità, nei momenti in cui Siti afferma che non è attraverso lo stereotipo di buona volontà che si porta avanti l’impegno intellettuale, ma esibendo il dubbio, l’ambivalenza, la contraddizione. Si fa torto a individuare incompatibilità tra Siti e Benedetti, e Starita e Guerra, se non nei termini di un conflitto proficuo, perché i più anziani con parole diverse confermano che bisogna educare alla complessità attraverso la capacità di esprimerla in un discorso chiaro. Da questo punto di vista lo scarto generazionale è visibile solo in una diversa articolazione del discorso. Il fatto che ai tradizionalisti e agli autocrati si siano sostituiti i progressisti non cambia l’assurdità del voler tenere nascoste le cose, né si può eliminare i concetti riscrivendo il linguaggio, come ha mostrato Orwell efficacemente settant’anni fa.
Tuttavia, questa non è una difesa di Siti e non si sottovaluta che non è da tutti potersi permettere di scrivere quello che scrive – così come non è intenzione in questa sede prendere per dogma le profezie descritte dalla prospettiva apocalittica di Benedetti. Tanto per cominciare, Siti sbaglia quando dimostra di non percepire che i nuovi intellettuali hanno imparato a parlare nei loro libri la lingua della moltitudine piuttosto che quella dell’élite, spiegando concetti importanti per trasmettere un sapere inclusivo piuttosto che esclusivo, capiscono che il canone dei testi da trasmettere non si può basare meramente sulla complessità degli stessi o sul loro valore letterario, perché inclusione significa ragionare con la dimensione del mainstream e non con quella elitaria di chi la complessità dei testi la vede. Bisogna prendere atto che oggi a un gruppo di studentesse la Cecchina di Matilde Serao dirà più cose di Flaubert, non giudicare sempre tutto con gli occhi della densità letteraria e dell’esclusività, perfino privilegiare Elena Ferrante a Dante per assecondare la formazione all’autonomia di scelta che permetterà un giorno che si arrivi a Dante proprio attraverso un’evoluzione originata da un amore incondizionato per Ferrane piuttosto che dall’imposizione del canone. Si tratta, per usare il linguaggio dell’autore che ha vinto lo Strega quest’anno, Emanuele Trevi, di adattarsi a un contesto in cui la letteratura si è “striminzita”, riprendendo un suo testo del 2012 con ancora una volta dedicato a Pasolini, Qualcosa di scritto.
Chiudo questo giro di prospettive scrivendo da Long Beach, California, dove mi trovavo prima della pandemia, da una situazione che come ho anticipato rende i primi tre episodi ancora più inattuali. Eppure, poche settimane fa nelle librerie americane è apparso un altro libro molto atteso e che sto leggendo in questo momento, Crossroads di Jonathan Franzen, che proprio nel suo mostrarsi inattuale rivela la sua attualità. Neanche a farlo apposta, è ambientato nello stesso 1971 in cui è uscito Americana, riproponendo a cinquant’anni di distanza quell’atmosfera culturale in cui gli stessi Benedetti e Siti si sono formati, e ci riporta indietro per interrogarci, ancora una volta, a che punto siamo, proprio contrapponendo diverse generazioni nello spazio della stessa pagina. Mai come in questi ultimi giorni dell’anno, guardando retrospettivamente il 2021, mi sembra che il miglior risultato che abbiamo ottenuto sia stato quello di tornare a riconoscere un dialogo tra diverse generazioni di pensatori, nelle loro posizioni spesso distanti e inconciliabili, come forse in Italia non si vedeva proprio dagli anni Settanta che sono seguiti alla prima grande contestazione e alla diffusione della controcultura.
Quindi mi sento di ringraziare questo 2021 maltrattato quanto il primo libro di DeLillo e di provare a vedere almeno questo come risultato positivo mentre continuiamo a cercare di capire se riusciremo a condurre delle vite più o meno simili a quelle precedenti, nei ritagli tra un’ondata e l’altra. Chissà che 2022 ci aspetta, ma intanto quest’anno devo dire non l’abbiamo per niente trascorso male, anzi abbiamo anche letto cose importanti e bellissime.