Il film è di quelli che producono la fila al botteghino anche di martedì sera.
O forse soprattutto di un martedì sera, infrasettimanale, così ostentatamente lontano dal mainstream fine settimanale.
È una fila dove immancabilmente conosci parecchia gente: ci trovi l’appassionato di musica che ritrovi sempre ai concerti, il compagno di classe con cui al liceo iniziasti ad ascoltare Non al denaro, non all’amore, né al cielo ed anche quello che all’epoca non capiva e ti stava sul cazzo già solo per questo e ritieni ancora, con immutata spocchia, che sia lì solo per l’evento; ma poi ci intravedi anche quelli attempati, che non conosci, ma che già sai che canteranno tutte le canzoni del film ad alta voce perché loro se lo ricordano, loro c’erano.
Quando inizia, si capisce da subito che Facchini ha deciso di utilizzare l’espediente del flashback a partire dal rapimento in Sardegna. E da lì inizia una narrazione della vita di De Andrè che immediatamente sottolinea la dimensione borghese della vita del cantante.
Il ragazzino vivace che salta nel fuoco per vedere le tette della compagna, che rifiuta il violino, simbolo di un’autorità genitoriale fin troppo bonaria, che inizia subito ad andare a puttane per i caruggi della città vecchia, che torna tardi la notte, insomma uno scapestrato che non vuole seguire le regole.
Tutto in un contesto da famiglia borghese.
Il plot è il racconto di una storia. Le scorribande con Paolo Villaggio (personaggio tra i più credibili, anche se troppo spesso si bea dell’amico genio), l’allontanamento dall’Università, i primi spettacoli in teatro, l’incontro con Tenco, quello con la Puni ecc. ecc. ecc.
E sempre la famiglia borghese da Occhi del Cuore sullo sfondo.
Per carità, Marinelli è credibile nelle movenze (anche se avrebbe potuto lavorare un po’ sull’accento) ed ancor di più quando canta praticamente tutte le canzoni che si trova ad interpretare nel film; i meno attenti neanche se ne sono accorti che il Pescatore o Tre Madri erano interpretate dalla stessa voce che interpretava Un’emozione da Poco in Lo chiamavano Jeeg Robot.
Ma tutto il film è fortemente appesantito dal taglio di fiction, con tanto di fatti edulcorati, come si apprende dai titoli di coda, che restituisce un De André piuttosto piatto. Ad un certo punto sembra che la cosa più importante nella narrazione del personaggio fosse il racconto del passaggio dalla Puni alla Dori e non l’intrinseca fragilità di Faber, così come molti sono gli indugi sull’alcolismo, ma praticamente assente la trattazione del pensiero anarchico che animò De André.
E che dire del livello intellettuale del cantautore, trasformato in un disperato quanto squinternato scrittore di versi che, vittima del suo perfezionismo, ha sempre il problema della chiusura della strofa di turno?
Insomma mi rendo conto che a confrontarsi con certi personaggi si corre contro le aspettative gigantesche di una moltitudine di persone (io ne avevo di enormi, completamente disattese) ma, non fosse per la colonna sonora che in un modo o nell’altro fa muovere le teste sognanti all’unisono nella sala, e per i versi eccezionali di cui pure è disseminato il testo di recitazione, il “film evento” altro non sarebbe che una fiction di tre ore e venti, da passare un martedì qualunque tra un Don Matteo e un Montalbano.
Qualcuno dirà che Fabrizio De Andrè – Principe Libero ha il pregio di mostrare al grande pubblico il talento del protagonista, ma forse non serviva una fiction sulle sue scappatelle per dimostrare il talento ineffabile di De Andrè.
Vedere uscire dalla sala quello che ti stava sul cazzo al liceo che grida al capolavoro, non fa che avvalorare questa amara sensazione.