“È mio il mondo con le sue primavere” scriveva un Majakovski ispirato e incendiario ne Il mio Maggio. “Al primo fra tutti i maggi andiamo incontro, compagni, con la voce affratellata nel canto”. Ogni mese ha in sé una poesia di possibilità, inaugura un mondo e atmosfere e nuovi passaggi di luce, taglio delle immagini, proporzione rinnovabile e ciclica tra paure e speranze. E se Aprile con Eliot è crudele, Maggio è la festa di luce per eccellenza: schiera Dickinson, Szymborska, Pascoli…esiste davvero un poeta che non ha scritto del Maggio? E ancora…se inizia col lavoro, con -la festa del, questo fragrante Maggio, sarà un po’ perché è nel lavoro che ciascuno scopre la poesia che dentro gli risuona, per la quale venne a questo pazzo mondo? Into the spring, in mezzo a tutta questa luce indecente a illuminare anche quello che non va, siamo soliti buttarci un po’ di vergogna sotto il sole; tra gli allergeni impazziti gustiamo una malsana indolenza: fabbrichiamo ponti di festività iperbolici. Il grande ponte che dalla lotta al nazifascismo porta al diritto al lavoro, un esempio di infrastruttura solida, che coniuga senso storico ed etica dell’occupazione – Toninelli, non capendolo, ne sarebbe entusiasta – in letteratura c’è già, lo abbiamo: è Primo Levi. Lo scrittore torinese, ben più noto per la trilogia che ne racconta la drammatica esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz, fu anche un grande sostenitore dell’importanza del lavoro nel conferire senso e dignità alla vita umana.
Per capire l’attitudine all’osservazione e all’accurato report che salda la comprensione alla memoria, sempre presente nelle sue pagine, bisognerà ricordare che Primo Levi era un chimico, che fece fatica a laurearsi a causa dell’introduzione delle leggi razziali. Una volta ad Auschwitz fu assegnato alla fabbrica di gomma sintetica di Buna nel lager di Monowitz.
“Piedi piegati e terra maledetta
Lunga schiera nei grigi mattini.
Fuma la Buna dai mille camini,
Un giorno come ogni giorno ci aspetta”.Dalla raccolta di poesie “Ad ora incerta”
La purezza di un mestiere “che è poi un caso particolare, una versione più strenua del mestiere di vivere” è resa e dosata con eleganza in un libro perfetto: Il sistema periodico. 21 racconti a costruire un’autobiografia che spazia dalla giovinezza agli studi, dal lager alla Resistenza. La vita come una serie di esperimenti, organizzati ed elencati dal lavoro. Accadimenti come reazioni chimiche, illuminati dallo sguardo preciso, attento alla materia sottile dei sentimenti, che prende spazio, dilata il tempo.
L’Assistente mi guardava con occhio divertito e vagamente ironico: meglio non fare che fare, meglio meditare che agire, meglio la sua astrofisica, soglia dell’Inconoscibile, che la mia chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili. Io pensavo ad un’altra morale, più terrena e concreta, e credo che ogni chimico militante la potrà confermare: che occorre diffidare del quasi uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico, del pressappoco, dell’oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi. Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico.
Potassio- Il sistema periodico
Una vita divisa tra il mestiere di chimico e quello di scrittore.
“Essendo agli occhi del mondo un chimico, e sentendomi…il sangue dello scrittore nelle vene” come risultato Primo Levi aveva “due anime in un corpo”. Così spiega l’autore a Faussone, durante uno dei colloqui di cui si compone il romanzo La chiave a stella. Libertino Faussone, detto Tino, operaio specializzato nel montaggio di ponti, tralicci e gru racconta con vocabolario limitato, ottimismo, franchezza e tanti tecnicismi il lavoro che compone le sue giornate.
“Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch’io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso per tutta la vita, o come la farlecca di un’operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male. C’erano due maniere: aspettare di diventare ricco e poi fare il turista, oppure fare il montatore. Io ho fatto il montatore”.
La chiave a stella
Faussone è vitale, parla con entusiasmo delle macchine che riesce ad assemblare, desidera sperimenta risolve attraverso il suo lavoro. Dall’Alaska all’India, dall’Africa alla Russia l’operaio specializzato Faussone vive avventure e si destreggia tra mille difficoltà. La sua abilità ne fa un homo faber, dalla connotazione vitalista e positiva. Poiché, come scrive Levi:
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.
L’elogio del lavoro operaio, in apparente contrasto con il clima che nel 1978, anno in cui uscì il libro, si respirava proprio a Torino, la città in cui Levi viveva – la stessa Torino della Fiat dell’operaio-massa, dequalificato e legato alla catena di montaggio – all’epoca valse allo scrittore-chimico delle critiche, ma in realtà la visione assolutamente salvifica del lavoro era già presente in Se questo è un uomo:
«Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo».
Lorenzo è un muratore che anche nella Buna di Monowitz tira su un muro ben fatto: a regola d’arte. Nel lager continuare a lavarsi pur nell’acqua putrida, lucidarsi le scarpe e lavorare, eseguire correttamente anche il più degradato dei lavori fa restare attaccati al nocciolo duro dell’umanità, non lascia che il nulla abbia il sopravvento. I nazisti provano a cambiare di segno, come nel peggior esoterismo, la dignità propria del lavoro, della realizzazione umana attraverso un’occupazione che contrassegni un’esistenza e le dia un senso. Ci provano con quell’Arbeit macht frei, e si può uccidere in molti modi un uomo, ma vivere davvero è possibile solo grazie alla sensazione di fare qualcosa di sensato per se stessi e utile per gli altri.
Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. […] Perché se ne sente l’impulso o il bisogno. È questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L’autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, così puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.
Perché si scrive? – L’altrui mestiere