Se vi piacciono i racconti dovreste leggere Primo amore ed altri affanni di Harold Brodkey (Fandango editore, traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli e Sandro Veronesi). Il libro appare per la prima volta in America nel 1958 e riscuote un notevole successo. Brodkey ha ventotto anni e la sua firma è già nota: la maggior parte dei racconti nel libro sono apparsi sul New Yorker. Si è laureato ad Harvard e Harold Bloom parla di lui sul Washington Post come il Proust d’America. È nato in Illinois, è di origine ebrea. Ha perso la madre da piccolo e si è trasferito a New York da qualche anno. Il mondo delle lettere sta per consacrare un maestro della short story.
I racconti di Brodkey sono clip dove non accade che la vita. La trama è l’ultimo elemento da considerare. I protagonisti sono famiglie, coppie, amici. Le ambientazioni sono cittadine, tra case, università e viaggi in Europa. La voce narrante dei primi racconti da Stato di grazia a Educazione sentimentale (meraviglioso) è prima di un bambino e poi di una matricola universitaria: la seguiamo nelle sue evoluzioni esistenziali e sentiamo che ci appartiene, che ci racconta eventi che in qualche modo ci riguardano.
Anche nei racconti successivi, quelli della seconda parte della raccolta, ritroviamo lo stesso personaggio femminile, quasi che Brodkey voglia andare fino in fondo ai desideri, alle fragilità, ai sentimenti. Quasi che stenti a separarsi dagli uomini e dalle donne che crea e che ci cuce addosso. Brodkey è un esistenzialista, ma non un minimalista. Non c’entra niente con lo stile Carver, Cheever o Yeats. La sua prosa è corposa, vibrante, anche se alla Knopf, storica casa editrice di New York, era Gordon Lish il suo editor (sì, proprio quel Lish che sfoltiva gli scritti di Carver a colpi di tagli).
Quando nel 2011 Fandango decide di proporre in Italia i racconti di Brodkey, Mario Desiati e Sandro Veronesi hanno già trascorse ore ed ore a chiacchierare di questo scrittore e dei suoi racconti splendenti. Prima di loro ci hanno provato Bompiani nel 1962 e Serra e Riva nel 1988. L’effetto della sua penna sul foglio è lo stesso di un pennello impressionista sulla tela: un coinvolgimento inevitabile, una sospensione palpitante.
“Erano le otto di una calda sera di settembre e tutte le campane di Harvard battevano le ore. Elgin Smith, stanco di studiare, se ne stava sui gradini delle biblioteca Widener – quei larghi, scomodi gradini di stile romano – e strizzava gli occhi guardando lontano, perché, a quanto dicevano, faceva bene alla cornea e alla retina. Pensava, non ai suoi impegni scolastici. Pensava a quel che doveva essere innamorarsi, adorare una ragazza e mettere la propria vita ai suoi piedi. Si disprezzava perché temeva di essere incapace di una vera passione e perché credeva che soltanto le persone passionali valessero qualcosa e tutte le altre fossero superficiali. Frequentava i corsi di letteratura inglese, tedesca e italiana, di storia antica e medioevale, e ognuna di queste materie era piena di avvenimenti che sembravano farsi beffe di lui, poiché sembravano dire che il significato della vita, il culmine dell’esistenza, il nocciolo degli eventi era una certa emozione che gli era estranea e verso la quale aveva, molto probabilmente, un atteggiamento troppo razionale. Perciò se ne stava sui gradini della biblioteca così sconvolto dall’inquietudine che soltanto la forza di gravità sembrava riuscisse a tenerlo insieme. Era molto alto, un metro e novanta, magro e nodoso. Aveva la testa piccola, di forma strana (il suo compagno di stanza, Dimitri, lo accusava qualche volta di rassomigliare a un cuneo di formaggio) e il naso a becco. Voleva diventare professore di filologia comparata e credeva nella Bellezza”
Insomma, roba da maestri. Nel 1988 Brodkey giunge in Italia, a Venezia. Nel 1993 proprio sul New Yorker annuncia di essere malato di AIDS. La malattia lo sfinisce in tre anni, tempo che dedica al suo racconto non fiction più famoso Questo buio feroce – Storia della mia morte.