Dove eravamo rimasti? Giugno 2019. Il Primavera Sound annunciava il primo nome della lineup del 2020 che creò grandi aspettative per la sua ventesima edizione: i Pavement. E poi sappiamo tutti cosa è successo. Più di due anni di niente, con un 2020 inesistente per i live (anno che avevamo definito “L’anno che non c’era”) e un 2021 con ulteriori restrizioni e condizioni che hanno costretto la maggior parte degli organizzatori a rimandare con grande rammarico tutto nel 2022.
Non tutti eravamo realmente convinti che potesse succedere. E invece è successo. Il Primavera Sound è tornato ed è diventato il simbolo della ripartenza con un’edizione complessa e inedita che si è estesa su due weekend. Un’edizione impressionante dal punto di vista numerico che ha superato le 80.000 presenze l’ultimo giorno del primo weekend – quello di cui ci occuperemo in questo report.
Parlavamo di un’edizione complessa, difficile e non solo perché è la prima post-pandemia. Il covid c’è ancora e ha portato alcuni problemi di lineup, fra cui la più clamorosa è stata la defezione degli Strokes e di altri nomi minori. E non dimentichiamoci dell’assenza dei Massive Attack, annunciata a due mesi dell’inizio del festival. La capacità straordinaria degli organizzatori è stata quella di tirare fuori dal cilindro nomi come Mogwai e Joey Bada$$.
Il primo giorno del primo weekend è stato probabilmente quello che ci ha disorientato maggiormente. Non si erano mai viste così tante persone il giovedì sin dalla prima ora e da subito si è avuta una sensazione di non vivibilità del festival. Questa è la mia settima edizione e non mi era mai capitato prima di vedere una situazione del genere. Il problema più evidente è stato quello delle lunghe file ai bar (durate anche più di un’ora) che ha portato un sentimento di negatività e ha rovinato parzialmente l’esperienza globale. I problemi di disorganizzazione sono stati prontamente risolti a partire dal secondo giorno e nonostante i numeri nettamente superiori dei giorni successivi, l’atmosfera del festival è tornata ai suoi giorni gloriosi, senza intoppi che portassero a perdere un live intero per comprare un bicchiere di birra.
Un altro cambiamento importante è stato quello degli sponsor e di conseguenza dei nomi dei palchi,a cui si aggiungono anche alcune inspiegabili modifiche alle disposizioni dei palchi e di specifiche aree. Il palco Night Pro (dedicato agli artisti emergenti) ha lasciato il suo spazio storico ed è stato spostato nell’area Bits che quest’anno risultava raggiungibile dopo un lungo percorso e sicuramente ha creato un accentramento e accalcamento verso i palchi principali del festival.
Altre due scelte hanno creato una certa perplessità: la prima riguarda l’affiancare i due palchi principali (Estrella Damn e Pull&Bear) che ha creato grossi problemi di mobilità e in qualche modo ha tolto la facilità di flusso rispetto a quando erano disposti uno di fronte all’altro; l’idea interessante della Boiler Room ha perso valore per via della sua disposizione adiacente al palco Plenitude (ex Pitchfork), risultando un fastidioso rumore di sottofondo per chi seguiva i live.
Qualche problema e sperimentazioni strutturali non brillanti non hanno reso meno memorabile questa ventesima edizione del festival che abbiamo potuto vivere liberamente così come ci eravamo lasciati tre anni fa. Con la stessa voglia di correre da un palco all’altro, riabbracciare le persone di questa grande comunità, controllare gli orari delle esibizioni mille volte e cambiare idea all’ultimo minuto, scatenarsi fino alle sei del mattino per poi crollare sul prato di fronte al Binance o sugli scalini del Cupra. È stato un reset, Un ritorno alla vita ma consapevoli di quello che abbiamo passato e vissuto.
Se è vero che il valore delle cose non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute, il Primavera Sound è l’emblema di tutto questo. La possibilità di vedere più di 40 concerti in pochi giorni, con stili e generi differenti, e con scelte durissime da fare per le esibizioni in contemporanea, mostrano ancora una volta la forza delle scelte artistiche, fattore distintivo rispetto ad altri festival internazionali.
Sul fronte degli show non possiamo non cominciare da Nick Cave che pensavamo avrebbe annullato il tour in corso e invece ci ha regalato un live memorabile. Indemoniato, fisico e carico più del solito, e con quella dedica di “I Need You” ai suoi figli che ha commosso tutti. Anche i Gorillaz hanno messo su uno show memorabile e molto divertente, con la maggior parte dei pezzi incentrati sulla vocalità di Albarn e una sfilata di ospiti incredibili come Fatima Diawara, De La Soul e Slowthai.
La differenza, questa volta, l’hanno fatta i grandi e non hanno deluso le aspettative headliner come Pavement (semplicemente immensi) e Beck che ha fatto un live tecnicamente impeccabile, perfetto e nel quale ha messo in mostra l’animale da palco che è in lui. E sui palchi importanti abbiamo anche avuto modo di vedere la straordinaria vocalità di Jorja Smith, l’incredibile crescita dei Fontaines D.C. che in pochi anni hanno raggiunto una maturità da band navigata e un incredulo Caribou (che doveva suonare al “meno” capiente Cupra) che ha suonato davanti a una folla delirante. Ne ha fatta di strada da quando apriva i concerti dei Radiohead (all’epoca del suo album di debutto), dimostrando tutto il suo talento, anche nelle colorate e dinamiche esibizioni dal vivo.
L’Auditori ci ha regalato altrettante emozioni: dagli indefinibili Low di cui ogni brano è un brivido, all’energia di Kim Gordon che ha letteramente incendiato il teatro; dall’esperienza al buio con gli Autechre alla più bella sorpresa del festival con la compositrice e cantautrice catalana Marina Herlop che ha pubblicato da poco il suo album di debutto via PAN.
Non hanno deluso i Disclosure con un set esteticamente impeccabile, il mastodontico King Krule e gli attesi Shame che hanno creato scompiglio con un live corpulento e una presenza scenica notevole sul palco Ouigo. Questa potenza moltiplicatela per infinite volte e otterrete l’incredibile show di The Armed che hanno portato il loro ultimo album “Ultrapop” sul palco Plenitude. Una band di otto/nove elementi in continua rotazione e movimento, sensazioni hardcore e punk. Divertimento assoluto per chi suonava e per il pubblico.
Non si trovano nemmeno le parole per elogiare abbastanza Little Simz che ha portato tutto il suo mondo sul palco Cupra e anche Les Amazon d’Afrique che ci hanno fatto divertire portando tutto l’entusiasmo che rappresenta in pieno il mood di questo grande festival.
Menzioni speciali per Jehnny Beth che anche da solista porta qualcosa di intenso sul palco, per l’incredibile bravura di Sharon Van Etten che ci ha trasportato nel suo mondo interiore con un live dalle tinte oscure, e per la cantante dei Porridge Radio che ha dovuto affrontare da solista questa avventura per via di problemi legati al passaporto di uno dei membri della band. È stato uno dei live più emozionanti di questo primo weekend.
Prima dell’inizio del secondo weekend, ci sono stati anche i concerti in città e oltre l’esibizione clamorosa dei King Gizzard & The Lizard Wizard, dei convincenti Iceage, la follia contagiosa di Les Savy Fav, c’è da segnalare l’incredibile serata curata da Shabaka Hutchings all’Apolo con esibizioni di Soccer 96, III: Considered, Steam Down e naturalmente i Comet is Coming.
Questo ritorno, che si svolge sempre nell’unicità della città di Barcellona, è stato più di un rivivere la musica live senza limiti. C’è un significato più profondo e chi ha vissuto il festival, dagli artisti agli addetti ai lavori al pubblico ha potuto respirare finalmente e nuovamente frammenti di vita che erano stati “dolorosamente” sottratti, a chi vive la musica in maniera viscerale. Non è stato tutto perfetto ma è sempre la più grande festa a cui non rinunceremo mai.