Quello che state per leggere non è solo un report, ma il racconto personale di uno dei festival dell’anno, il Primavera Sound in salsa 2014. Un racconto doppio, attraverso gli occhi di due inviati a Barcellona, il trentenne Salvatore Sannino in rappresentanza della vecchia guardia e il ventenne Giacomo Cortese con la sua gioventù. Ovviamente in un festival dalle dimensioni così grandi i gusti si incontrano sempre, e i Metronomy mettono d’accordo tutti.
[divider]
a cura di Salvatore Sannino
Temples: i migliori ristoranti, si sa, si valutano dall’antipasto e il concerto di apertura dell’edizione 2014 del Primavera Sound vede la band inglese rivelazione dell’anno esibirsi davanti a un mare di ombrelli aperti per il tempo inclemente. Con le loro chitarre e ritmiche psichedeliche e oltremodo melodiche, i Temples hanno rappresentato nel 2014 quello che i Tame Impala sono stati nell’anno precedente. Ne hanno inglesizzato il suono, attenuato l’acidità è riutilizzato la scuola melodica dei Beatles, il risultato è un concerto convincente, che avrebbe meritato qualcosa di più coinvolgente di una folla di ombrelli aperti, ma gli inglesi si sa, se ne fottono della pioggia e alla fine hanno vinto loro. Voto: 7
Stromae: a quelli che pensavano che la presenza dell’artista belga (sebbene nella giornata di apertura del festival) fosse un tantino forzata, Stromae ha risposto con un concerto da far rimanere a bocca aperta. È riuscito a far ballare e asciugare dalla pioggia tutto il pubblico presente all’ATP. Si presenta sul palco come l’incrocio tra uno chansonnier e un burattino: balla, si sbatte, si emoziona e si commuove e fa altrettanto effetto su chi lo ascolta. I suoi brani dal vivo acquistano quella forza che su disco viene appiattita da una produzione spesso troppo pesante e sottolineano la non appartenenza a un genere ben finito. Un live da rivedere, assolutamente. Voto: 8
Sky Ferreira: che non tutte le ciambelle escono col buco ce lo insegnano fin da piccoli ed il live di Sky Ferreira tra inconvenienti tecnici e una distinta incapacità si è distinto per tedio e noia, tanto da farmi abbandonare il campo prima del tempo. Voto: 4
Real Estate: eterei, sognanti, perfetti per l’ora del’aperitivo, i Real Estate sono un gruppo da ascoltare con gli occhiali da sole, facendosi avvolgere e cullare dalle loro melodie trasognanti e sottili. Esecuzione impeccabile, peccato che dopo un po’ il loro stile, a volte troppo ripetitivo, inizi irrimediabilmente a stancare. Voto: 7
Midlake: sanno fare il loro mestiere, sanno stare a metà strada tra il folk americano e l’indie rock. Un live composto, denso, di quelli in cui cantare le canzoni e sentirti parte di ogni singola nota. Elegante ed evocativo Voto: 7
Warpaint: chi l’avrebbe mai detto che le Warpaint sanno pure suonare dal vivo? Io no di certo, eppure mi sono dovuto ricredere, un live semplice ma carino, arricchito dalle acconciature terrificanti delle protagoniste (dai capelli agli abiti). L’antipasto più leggero per i piatti principali. Voto: 6,5
Neutral Milk Hotel: il delirio, l’emozione: quella che ti aspettavi ma che quando la provi sai capisci che è meglio di come la immaginavi. I NMH sono degli adorabili freakettoni e il loro concerto ha una sola protagonista: la musica, quella fatta di canzoni che sai a memoria e ti senti un po’ addosso, che vuoi sussurrare e urlare, su cui vuoi perfino pogare, affinché quelle note si manifestino come estensione del tuo corpo. Un concerto epico, da brividi. Voto: 8,5
Arcade Fire: che io non mi possa certo definire un fan degli Arcade Fire lo sanno un po’ tutti, ma che il loro concerto sia molto bello mi sembra abbastanza una verità oggettiva. Grande scenografia, giochi di luci e una scaletta ricca di classiconi, vestiti appariscenti, tutto fatto per stupire, tutto alla grandissima, manca solo un pizzico di emozione, troppa algidità, troppa freddezza, mancano i brividi, ma resta il ricordo di un grandissimo concerto. Da vedere. Voto: 8
Metronomy: Il sole alle tre di notte, dopo una lunga giornata, il loro live rappresenta praticamente una nuova alba: freschi, luminosi, solari e carichi come non mai. Con i loro ritmi e i loro brani da cantare a squarciagola, quel pop melodico che fa tanto sognare, i Metronomy rappresenteranno uno dei live più belli di tutto il festival, sicuramente il più divertente. Consigliatissimi. Da ascoltare con un mojito in mano possibilmente.
John Grant: A lui piace la pioggia, ce lo rivelerà durante un concerto che per ascoltarlo devi bagnarti per forza, di una pioggia torrenziale, dalla prima all’ultima nota, da Vietnam a GMF. L’atmosfera è magica e tutti ascoltano il live in religioso silenzio, avvolti nei loro impermeabili più o meno di fortuna. John sa sorprendere ad ogni nota, quando fa il cantautore e quando veste i panni di chansonnier elettronico, resta sempre sobrio, non sbagliando mai un colpo. Un concerto che incanta e riempie lo spirito. Voto: 7
Slowdive: Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei potuto dire di aver visto gli Slowdive dal vivo? Mentre lo scrivo nemmeno ci credo. Una reunion…che poi le reunion non vengono mai bene, sono sempre mere operazioni commerciali, sono quei live in cui gli anziani dimostrano che sono sempre i migliori (e non è mai vero, mai). Il concerto degli Slowdive è una meravigliosa attenzione, il suono, il dettaglio, la voce, il rumore è esattamente come vorresti che fosse. E’ come un sogno ad occhi aperti, che ti fa viaggiare, nonostante tu resti piacevolmente ancorato con i piedi per terra. Tra il mistico e l’onirico. Voto: 9
Pixies: è brutto vedere l’alternative rock per eccellenza che si trasforma in classico, adottandone tutti i difetti…il doversi celebrare in maniera indecorosa, solo per il nome che si porta. I Pixies mettono in fila una scaletta meravigliosa (ripescando addirittura brani come Hey! e Debaser), quello che manca però è l’emozione, il coinvolgimento. I Pixies non rendono giustizia al loro glorioso passato, trasformano tutto in un atto dovuto, senza mai sorprendere. Deludente. Voto: 5
Slint: è difficile raccontare la perfezione, quasi quanto è difficile scolpire delle note fisse nel tempo e ripeterle esattamente allo stesso modo, con lo stesso coinvolgimento. Fa un certo effetto sentire gli Slint dal vivo, sentire nello stomaco il silenzio diventare frastuono e poi di nuovo silenzio, il basso girarti attorno, le parole circolare forti e precise. Washer porta lacrime e non ne puoi più fare a meno. Perfetto. Voto: 9
Darkside: il progetto più interessante dell’anno regala uno dei live più belli in assoluto di tutto il festival. I Darkside dal vivo sono sono una proiezione sia visiva che sonora, così come la loro immagine è un’ombra proiettata dalle luci sul palco, i brani sono duttili come ombre, si trasformano lasciando libero spazio all’improvvisazione. Si balla e si interiorizza. Fantastico. Voto: 8
Television: Marquee Moon suonato come quando il vinile perde qualche giro. Tutto rallentato, attese interminabili tra un brano e l’altro, non resta che il ricordo di un passato glorioso e di una canzone cantata al rallenty. Resta l’amore e la simpatia per un gruppo e un album che non moriranno mai. Voto: 6
Nine Inch Nails: il palco, le luci, gli sguardi, tutto ruota attorno alla figura carismatica di Trent Reznor, ai suoi movimenti, alle sue urla. C’è anche un tipo che gli mantiene una luce del palco diretta addosso. Un concerto di amore e violenza, rabbia e disperazione, un po’ troppo elettronico forse, ma con una scaletta che pesca a piene mani nel repertorio della band. E poi quella Hurt, quelle mani alzate e quella suspence. C’è un momento tra “goes away in the end” e “you could have it all” in cui tutti cantano, in cui tutte le mani si alzano ed i respiri diventano unici, la voce aumenta e poi si rompe…”i will make you hurt” e ti sembra di non essere più lo stesso, ancora una volta. Voto: 8
Cloud Nothings: Volumi enormi, chitarre che stridono e batteria pestona, è il live adatto per metterti a fare crowd surfing se hai vent’anni o giù di lì. È il live giusto per gustare un pò di sano rock’n’roll e di agitarti sulle interminabili dissonanze di Wasted Days. Sono cresciuti i Cloud Nothings, molto. Sudore e hardcore. Voto 7
Ty Segall: La rivelazione del festival, l’incendiatore definitivo della Sala Apolo, tra fiumi di schitarrate psichedeliche e assoli devastanti, Sudore e stage diving. Eroico. Voto: 8,5
[divider]
a cura di Giacomo Cortese
CHVRCHES (7,5/10): Il trio scozzese sale sul Pitchfork stage un po’ titubante, mentre l’incantevole Lauren dichiara subito il suo stupore per il fatto che in così tanti li abbiano preferiti ai Queens Of The Stone Age, che nello stesso momento suonavano all’Heineken. La ritrosia iniziale scompare quasi subito sommersa dalle note ruvide dei synth (soprattutto dei bassi), che trascinano il nutrito pubblico in istantanei accenni di danza. Da segnalare che la voce di Martin Doherty su Under My Tide dal vivo è parecchio diversa dalla versione in studio, meno intensa, e lascia largo spazio alla parte strumentale. Coralmente apprezzata la chiusura con The Mother We Share.
Dum Dum Girls (6,5/10): Abbandono a metà i Television per sentirmi giovane sottopalco al Pitchfork con le Dum Dum Girls, che però non mi convincono, forse anche per colpa di un’acustica poco curata o di un palco che per loro è risultato quasi dispersivo. Il loro live è lento e misurato, e il pubblico, già non eccessivo, pian piano si sfalda. In ogni caso riescono meglio i brani vecchi di quelli nuovi.
Julia Holter (8/10): Alle quattro del pomeriggio dopo un giovedì notte di eccessi, con le poltroncine comode e mentre si ascolta una cantautrice dalla voce delicata e amante dei lenti equilibrismi strumentali quale è Julia Holter è dura che la palpebra non cali un poco. Il silenzio in sala era perfetto e si distinguevano chiaramente tutte le sciocchezze che la giovane fanciulla andava dicendo tra un brano e l’altro nel vano tentativo di strappare una reazione ad un pubblico che invece si limitava a sorridere sornione. In ogni caso, un live qualitativamente ottimo che ha mostrato ad un auditorium pieno la fantasia sperimentale di questa giovane artista americana ed ha lasciato tutti pienamente soddisfatti (e, in alcuni casi, riposati).
Moderat (7,5/10): I berlinesi iniziano a suonare puntuali come solo i tedeschi sanno essere e, partendo sin dal principio con dei bassi spremuti fino al naturale limite di sopportazione dell’impianto, riescono a richiamare molta della gente di ritorno dal live degli Arcade Fire, appena terminato, e forse a rubare una bella fetta di pubblico ai Disclosure. Ad una prima parte molto coinvolgente si contrappone una seconda parte più composta, ma anche più cesellata, che però ha lasciato scontento chi, come me, voleva continuare a sentir vibrare le proprie ossa.
Haim (8/10): Dopo essermi ascoltato un po’ i Loop (che peraltro meritavano) mi son diretto all’Heineken stage per sentire come se la cavavano dal vivo le tre sorelle Haim (per la cronaca, io ho tre sorelle più piccole e dopo aver sentito questo gruppo nutro la segreta speranza di vederle esibirsi un giorno come “Le Cortese”, anche se temo sia vana). In ogni caso il trio in rosa prende possesso di uno dei palchi più grandi del festival con eccezionale maestria. Esibendosi in una versione più rock che pop del loro disco d’esordio riesce a richiamare dal Sony molta gente che voleva prendere posto per non perdere le prime file dagli Slowdive, ma che ha risposto al richiamo attraversando la spazio tra i due palchi e rendendo eccezionalmente nutrito il pubblico di queste giovani debuttanti. Un successo dunque l’apparizione al Primavera di questo trio statunitense, e non lo dico solo perché voglio che Danielle Haim sia la madre dei miei figli.
SBTRKT (5,5/10): Il producer inglese prepara un palco esagerato, con un enorme e tenebrosa mangusta gonfiabile, luci e laser ovunque, maschere sul viso, hype alle stelle, e poi si ammazza nei problemi tecnici. Un quarto d’ora di attesa con brani che partono, poi si fermano, scuse, ancora attesa, ancora qualcosa che non funziona. E comunque, anche dopo che la parte tecnica inizia a girare per il verso giusto in realtà l’esecuzione si rivela abbastanza sottotono e poco convincente. Mi dispiace perché probabilmente la colpa è stata sua solo in parte, ed in effetti anch’io dopo un inizio così sfortunato perderei gran parte del mio brio, ma devo dire che mi son davvero pentito di averlo preferito ai !!! che suonavano in quel momento all’Heineken.
The Vickers (7/10): I fiorentini The Vickers suonano alle 5 di pomeriggio, nel piccolo palco dell’Adidas, con poco pubblico e sotto una nuvola carica di pioggia che in pochi minuti si sarebbe tramutata da minaccia in realtà. Nonostante tutto fanno il loro set con dignità ed entusiasmo, e dispiace molto che siano stati sacrificati così dal momento che avrebbero meritato perlomeno un po’ di sole e una cinquantina di persone in più sotto al palco.
GY!BE (9/10): Il mio personale momento più intenso del festival; un’ora e quaranta di rapimento in cui, complice anche una doverosa vicinanza al palco, i suoni ipnotici di questi signori del post rock canadese mi sono entrati fin dentro alle ossa e ne sono usciti lasciandomi in uno status di ebbrezza per i successivi venti minuti. E poco importa che abbiano suonato meno di quanto era stato preannunciato e che non si siano sprecati in chiacchiere (ed è più che giusto così), sentirli dal vivo è stata una delle esperienze migliori della tre-giorni. Dispiace solo che siano stati relegati all’atp, con la sua acustica spiacevole, quando invece per il genere che fanno avrebbero meritato l’atmosfera contemplativa dell’auditorium, ma tant’è.
Mogwai (8,5/10): I Mogwai sono sempre una garanzia. Su un palco che evoca chiaramente le atmosfere di Rave Tapes il gruppo scozzese si esibisce in un tripudio di climax ascendenti che crescono nelle orecchie del pubblico fino a sgonfiarsi improvvisamente in arpeggi malinconici e delicati. Non c’è modo di far loro un appunto, di trovare un difetto. I nostri concludono il live nella distorsione più totale, con i fonici che si affannano a spegnere in fretta pedaliere e amplificatori e il pubblico ancora stordito da un tale tripudio di suoni e luci.
The National (8,5/10): Il gruppo di Matt Berninger fa il pienone al Sony stage e, con una scaletta sapientemente dosata tra ultimo disco e vecchi lavori, commuove il pubblico. Il frontman scatenato (e probabilmente pure ubriaco) non riesce a stare fermo, si sposta sul palco, si arrampica sui piloni, getta nel panico la security, si getta sulla folla trascinandosi dietro il microfono e malmenandolo con poca grazia, mandando in visibilio i fans delle prime file. Da ricordare scolpiti nel cuore gli interventi di Justin Vernon su Slow Show e di buona parte degli Walkman nelle battute finali con Mr. November e Terrible Love. Uno dei live più memorabili di questo Primavera Sound.
Cold Cave (7,5/10): Wesley Eisold conquista il Vice col suo ciuffo svolazzante e la sua voce che in tutto ricorda quella del leggendario David Silvian. Sul palco assieme a Amy Lee i due, tra eterei fasci di luce e synth darkeggianti giocati in particolare sui bassi, creano un’atmosfera cupa ed avvolgente che fa muovere non poco i presenti. A causa della concomitanza con Black Lips e Chromeo il pubblico non è troppo nutrito, ma l’artista statunitense si impegna in un live di tutto rispetto che unisce sapientemente sonorità darkwave ed elettronica.
Jamie XX (6/10): Il giovane producer londinese chiude la serata de giovedì proponendo il suo dj set al Ray Ban stage, ma senza brillare per capacità di coinvolgimento. Le sue atmosfere equilibrate ed eleganti si sposano male con l’ora tarda e la necessità diffusa di qualcosa che risvegli dal torpore ed inviti a ballare. L’effetto finale è dunque quello di svuotare pian piano il Parc de Forum, lasciando ai presenti un’opinione perplessa sulle reali abilità del frontman degli XX. Se aggiungere il nome della propria band al suo è una scelta che genera curiosità, è anche una mossa che crea grandi aspettative nel pubblico; aspettative che quest’esibizione mattutina soddisfa solo in parte.
(ove non indicato, le foto sono a cura di Salvatore Sannino e Giacomo Cortese)