Doppia data per la cerimonia di chiusura del basement dell’Astoria. Il locale di Torino, sito nello storico quartiere San Salvario, è diventato stagione dopo stagione, un punto di riferimento della scena underground, accaparrandosi le date di band agli esordi, che hanno in poco tempo fatto parlare di sè, nomi che sono arrivati rapidamente sulla bocca di tutti. Anche questa volta non si smentiscono, con i live dei Preoccupations (ex Viet Cong) e dei Whitney. Eravamo presenti a entrambe le serate.
Lunedì 5 Giugno: Preoccupations
Il piccolo locale straripa di gente per l’atteso live dei Preoccupations. Nel 2015, quando ancora si chiamavano Viet Cong, diedero alle stampe quello che considero non solo l’album più bello dell’anno, ma l’esempio migliore di post-punk dell’ultimo periodo. L’attesa è alle stelle, e quando i quattro salgono sul palco è palpabile.
Tanto per rompere il ghiaccio, il live comincia con Anxiety, dal secondo album, e Continental Shelf, in sequenza, con un tiro ben più violento di come suonano su disco. La voce di Matt Flegel dal vivo ha una resa totalmente diversa, perde quella vena dark wave, si fa più bassa e sporca, meno melodica e sforza un po’. Non è l’unico aspetto che differisce dalle registrazioni: l’impatto del live è devastante. I volumi sono altissimi, e uniti al caldo e alla calca della piccola sala, rendono l’esperienza per il pubblico quasi dolorosa, mentre la band sembra non curarsene. Suonano i pezzi in continuità, senza soste, strappando gli applausi e le urla del pubblico tra un riff e l’altro.
Non si fermano nemmeno quando Matt rompe una corda del suo basso, iniziando a sanguinare copiosamente. Mike Wallace alla batteria ci regala una performance da atleta, a torso nudo, con un paio di shorts inguinali, per tutta l’ora e mezza di show pesta come un dannato, sorprendendo con un’esecuzione al contempo estremamente potente e pulita (il repentino cambio di ritmo dell’incipit di March of Progress è da manuale). Per la versione dilatata di Death, che chiude il live e lascia il pubblico attonito e con le orecchie doloranti, i musicisti suonano in cerchio guardandosi, fatta eccezione per Daniel Christiansen (chitarra- synth), perso nel suo angolo di palco che alla fine suda, sbava e si contorce.
Che siate ancora affezionati al vecchio nome Viet Cong, o vi siate abituati al nuovo, che abbiate apprezzato entrambi i dischi o, come me, abbiate l’opinione che il secondo non riesca ad eguagliare il sorprendente esordio, i Preoccupations dal vivo non solo non deludono le aspettative, ma le superano. Un ottimo esempio di una band post-tutto, che conserva uno spirito profondamente punk. L’acufene che sicuramente mi verrà in tarda età, sarà in parte imputabile a questa serata.
Parole di Monica Bogliolo
Fotografie di Alessia Naccarato
Martedì 6 Giugno: Whitney
È una rara opportunità assistere al live di una band circondata da una luminosa aura di hype in una sede molto intima, con non più di un centinaio di persone, ma quando accade ti senti un privilegiato. Nella seconda serata di cerimonia di chiusura del basement, l’Astoria è riuscita ad accaparrarsi i Whitney, che si son concessi un rapido intervallo in Italia tra le esibizioni dei due Primavera – Barcellona e Porto – su palchi di ben altre dimensioni, regalando un’ora di spettacolo d’eccezione.
Vestito con la consueta salopette ed armato di bacchette, Julien Ehrlich è fin da subito assoluto mattatore in scena, in grado di rivestire con abilità pirotecnica il doppio ruolo di drummer scatenato e di cantante dallo splendido falsetto. Ai suoi lati e dietro –insomma, dove c’è spazio – gli altri cinque lo seguono a ruota, con doppia chitarra, basso e fiati. Tra bandierine colorate e lucine, sembra di essere a una festa e il fatto che il frontman distribuisca costantemente al pubblico battute e pensieri come caramelle fa sembrare i sei i tuoi migliori amici. La scaletta non può essere vastissima, considerando il solo Light Upon the Lake all’attivo, ma tra una più reggae On My Own, una rockettara No Matter Where We Go e un paio di cover il tempo sembra accelerare più del necessario. L’intesa fra i ragazzi di Chicago è perfetta e a tratti pare di assistere ad un’improvvisazione jazz, con l’unica differenza che non vi è alternanza nello strumento da seguire, ma a dettare i cambi rimane comunque costantemente la batteria di Ehrlich.
La facilità con cui i Whitney sono in grado di proporre variazioni repentine di ritmo e di genere permette loro di volare liberi da qualunque etichetta-gabbia, che sia country, folk, o quant’altro si voglia, ponendo invece un accento forte sull’originalità di un carattere musicale indipendente e di una presenza scenica notevole. C’è ancora tempo per No Woman e per qualche battuta finale sul come e dove proseguire la serata, prima di allontanarsi ed osservare solo facce rilassate di chi si è trovato a passare un martedì sera tanto inconsueto e allo stesso tempo così familiare da farlo sembrare una piacevole normalità.
Parole di Matteo Dalla Pietra
Fotografie di Alessia Naccarato