“The problem is not that people remember through photographs,
but that they remember only the photographs.”
(Susan Sontag, Regarding the Pain of Others)
Ogni anno, il 27 gennaio, si celebra la Giornata della Memoria. Si tratta di un’occasione per riflettere sull’Olocausto, il grande trauma del Novecento europeo, e per meditare su come la trasmissione della memoria debba sopravvivere ai suoi superstiti. Tuttavia, a oltre settant’anni dalla fine di quella guerra che portava con sé l’imperativo a non dimenticare e resistere contro le future ricomparse e metamorfosi dell’antisemitismo, in Europa l’ebreo torna a essere bersaglio di un circuito della paranoia. Nel ’59, Theodor W. Adorno (emigrato nel ’33 a Parigi perché di origine ebraica) ammoniva a vigilare sulle tendenze fasciste nella democrazia: per combattere l’antisemitismo, da un lato era necessaria un’analisi critica del nazionalismo e delle sue inevitabili derive totalitarie, dall’altro l’istituzione di un’educazione anti-razzista, per evitarne l’eterno ritorno in forme più o meno mutate. Eppure, lo spettro dell’antisemitismo ritorna a ribollire proprio in quel Paese che più di tutti, nel suo tentativo di ricostruzione nazionale nel dopoguerra, aveva apparentemente interiorizzato la lezione di Adorno: la Germania. Secondo i dati del Dipartimento per la ricerca sull’antisemitismo, nella prima metà dello scorso anno a Berlino sono stati documentati già 410 episodi: più di due casi al giorno. La pandemia in Germania, anziché incitare a un rinnovato sentimento di universalità nella sofferenza e nella perdita che ha portato con sé, è diventata un catalizzatore per l’ossessione del complotto in chiave antisemita, in una riproposizione di quell’Ur-Fascismo profetizzato da Umberto Eco.
Ma se questo fantasma non vuole morire e anzi trova nuovo respiro e trasmutazione nel cuore dell’Europa, è necessario ripensare alle modalità finora impiegate di trasmissione della memoria, così da tramandarla alle generazioni future, che non hanno più la possibilità di avere un dialogo aperto con i suoi sopravvissuti.
Nel 2017, il progetto Yolocaust innesca un dibattito virale sul ruolo del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa. L’ideatore è Shahak Shapira, scrittore satirico tedesco-israeliano, e a spingerlo a creare questo progetto di denuncia è l’atteggiamento naïf – quando non percepito come apertamente dissacrante – con cui i turisti si muovono nello spazio del monumento. Una delle lezioni cruciali ereditate dallo scorso anno riguarda proprio il ruolo del monumento storico: le proteste in Virginia contro quello dedicato al generale confederato Robert E. Lee, l’abbattimento a Bristol della statua dell’ex schiavista Edward Colston e la colata di vernice rosa sul monumento milanese a Indro Montanelli portano con sé la stessa matrice, ossia che il monumento e la statua non sono mai un oggetto neutro, apolitico, muto, bensì l’emblema di una Storia che ancora ci rappresenta e plasma tutte le sfere della nostra realtà, da quella culturale-sociale a quella politica – una storia formalmente condannata, ma non ancora metabolizzata e rielaborata. Tuttavia, se le forme di resistenza sopra citate rivelano la necessità impellente nel campo dell’attivismo di decolonizzare l’immaginario presente nella società occidentale, il monumento della capitale tedesca costituisce un caso differente: dovrebbe riunire, anziché dividere, perché emblema di un capitolo storico che pubblicamente ognuno – negazionisti esclusi – condanna risolutamente. Infatti, la presenza del memoriale costituisce un j’accuse all’eredità storica nazionale, a ciò che è stato fatto in nome della nazione tedesca verso i suoi stessi cittadini ebrei. Non sorprende, però, che questa presa di posizione sul proprio passato e la sua emanazione architettonica abbiano incontrato voci dissonanti: nel 2017, infatti, un esponente dell’Afd, il partito nazional-populista tedesco, afferma che “i tedeschi sono l’unico popolo al mondo ad aver piantato un monumento della vergogna nel cuore della propria capitale”, generando uno scandalo nazionale da cui a prendere le distanze è stato anche il suo stesso partito.
Ma l’ereggere un monumento che ricordi le vittime della Shoah non ne determina una fruizione turistica rispettosa, ed è proprio a causa dell’atteggiamento di alcuni turisti che nasce Yolocaust (dato dalla fusione di Holocaust e YOLO [You Only Live Once]). Accanto ad alcune foto – trovate su Facebook, Instagram e Tinder – che ritraggono questi comportamenti irrispettosi (fare parkour, prendere il sole, fare stretching o yoga), Shapira accosta gli stessi scatti calati nelle foto d’epoca dell’Olocausto, utilizzando e strumentalizzando l’orrore per scandalizzare: l’impressione finale è quella di trovarsi di fronte a una virale gogna pubblica, che ha poco di istruttivo e molto di pedante.
La viralità del progetto non è sfuggita all’architetto dietro al memoriale, Peter Eisenman, che ha commentato negativamente l’iniziativa di Shapira. Secondo Eisenman, il suo memoriale ha più il carattere di una chiesa cattolica, intesa dunque come luogo d’incontro e convivialità, anziché di terreno sacro. L’idea dietro al memoriale è quella di affidare a persone di diverse generazioni una modalità personale di interagire con lo spazio, senza prescrizioni. Altro discorso, secondo l’architetto newyorchese, riguarda i campi di concentramento: lì, a detta sua, comportamenti simili sarebbero inammissibili.
Al di là dei giudizi etici ed estetici su Yolocaust, gli va riconosciuto il merito di avere generato un dibattito riunito in un interrogativo: come ricordare, nell’epoca della post-memoria?
Infatti, oltre al memoriale per le vittime della Shoah, anche il campo di concentramento si scontra nel dibattito pubblico con le contraddizioni di essere un sito turistico e, per tanto, di rientrare nell’ottica della sua industria. Tuttavia, c’è un’aggravante: con l’aumento delle visite ad Auschwitz e Dachau (il lager più visitato in Germania, con circa 800000 turisti ogni anno), emergono anche le perplessità e i timori sul carattere performativo di questo turismo. Se la fruizione da parte dei visitatori del campo di concentramento diventa un’esperienza turistica, questo potrebbe minare il monito che sta proprio alla base dell’apertura al pubblico: l’obiettivo etico di permettere l’incontro tra i visitatori e le prove e luoghi dove si è consumata una tragedia sistemica e meticolosamente programmata, al fine di comprendere l’importanza dei valori democratici e dei diritti umani per la società futura. Il mantra è conoscere la storia, affinché questa non si ripeta.
Tuttavia, l’apertura al pubblico dei campi di concentramento spiana la via a due questioni spinose: la prima, su cui si è a lungo focalizzato Herbert Marcuse, riguardo l’autenticità di questi luoghi, e il compromesso nella presentazione di questi spazi per la loro spendibilità al visitatore esterno. Secondo Marcuse, sono stati troppi i cambiamenti e le ricostruzioni dei lager nel corso degli anni, tanto che sarebbe evidente una ripetuta sanitizzazione della sostanza storica autentica: non è segreta l’iniziale riluttanza nazionale, negli anni Quaranta e Cinquanta, a preservare il campo di Dachau. Oltre alle polemiche sull’aprire o meno questi luoghi, o sul mantenerli integri o riadattarli, il dilemma maggiore ruota intorno alla loro presentazione al pubblico, e alle modalità in cui questa memoria deve essere mantenuta e non semplificata, anche – e nonostante – la domanda del turismo di massa. La giustapposizione tra la storia del nazismo e quei luoghi oggi, curati e ben tenuti, pronti per essere consumati dalle folle di turisti, è un’immagine incongruente, se non grottesca.
La seconda problematica riguarda la tipologia di turista che visita i campi di concentramento. Secondo i dati raccolti ad Auschwitz e Dachau, sono tre gli archetipi del turista: quello che ha un legame diretto con l’Olocausto (parenti, vicini o persone care), o che si identifica collettivamente con le vittime, per esempio per appartenenza religiosa; ci sono poi i gruppi scolastici in gita o le comitive: in Germania, infatti, è prerequisito obbligatorio che gli studenti visitino un campo di concentramento o un museo, o memoriale, dedicato alle vittime dell’Olocausto; infine c’è il gruppo definito da Diana Popescu “post-testimone”: quello le cui motivazioni dietro la visita sono le più complesse da inquadrare.
Non avendo una connessione biografica o diretta con le vittime dell’Olocausto, spesso il turista/post-testimone è stato associato al “dark-tourism”: ossia la pratica di visitare luoghi associati a sofferenze, torture e massacri. Dai campi di battaglie storiche ai manicomi, il campo di concentramento è per definizione il punto estremo del turismo macabro. Ma questa ascrizione risulta problematica, dal momento che è disonesto tentare di indovinare l’intento dietro la scelta di questi turisti, e allo stesso tempo banalizzante, perché suggerisce implicitamente che dietro questa scelta ci sia solo un desiderio voyeuristico.
Se ammettiamo, con Popescu, che il post-testimone mira a costruire un investimento immaginativo ed emotivo con un passato che si fa sempre più remoto, non possiamo ignorare le modalità con cui i turisti interagiscono con questi luoghi. Infatti, più che il rischio della musealizzazione dei campi di concentramento, il timore è quello di una Disneyficazione dei siti della memoria.
Scorrendo i quesiti nella pagine Google dei campi di Sachenhausen o Buchenwald, si incappa in un ventaglio kafkiano di domande. Insieme agli interrogativi di persone che chiedono di verificare i nominativi di nonni o familiari nei registri, si trovano in gran numero domande come: è possibile portarsi il cagnolino appresso? ci sono la caffetteria e il bookshop? possiamo scattare foto? è possibile portare bambini sotto i dieci anni?
Il campo di concentramento non è un monumento della memoria muto, ma un luogo visitabile, penetrabile, calpestabile. È un sito della memoria cui si richiede di parlare, di ricostruire la Storia, di svelare al pubblico l’archivio dell’orrore che ha in custodia. È un luogo pedonale che ospita ogni anno centinaia di migliaia di coppie, famiglie con infanti, comitive, gite scolastiche.
Ma la memoria non può sopravvivere sottovuoto: audioguide, mappe, ricostruzioni di baracche e archivi fotografici cercano di ripristinare una realtà invisibile, che dev’essere stimolata nel visitatore. I mucchi di scarpe e valigie sono il simulacro del destino degli ebrei d’Europa. È una thanatos-estetica che cerca di restituire un ethos vivo e universale.
Tra le figure che hanno meglio saputo leggere e analizzare cosa significa osservare e riprodurre la sofferenza degli altri, c’è la scrittrice statunitense Susan Sontag. Il suo celebre saggio uscito nel 2003 “Regarding the Pain of Others” (a fine febbraio uscirà in Italia grazie alla casa editrice nottetempo, che ne sta ristampando le opere) è una disamina dell’uso e dei significati delle fotografie che ritraggono violenza, per riflettere tanto sulle cause della sofferenza, quanto sulla nostra ricettività da spettatori. Nel ’45, a dodici anni, Sontag vede per la prima volta le immagini dei sopravvissuti all’Olocausto: quell’evento segna uno spartiacque cruciale nella sua vita e ne determina la successiva ricerca, nel tentativo di rispondere alla domanda – se in ogni uso della fotocamera avviene un’aggressione implicita, è più grottesco osservare quelle immagini, o evitarle? Le fotografie riflettono la realtà, anche e nonostante la manipolino e la sfruttino. Sontag sa che perché qualcosa esista, deve essere fotografato: non a caso, le immagini dell’Olocausto che ci sono giunte sono quelle scattate dagli Alleati al momento della Liberazione dei campi. Per la scrittrice, coloro che osservano l’archivio fotografico dell’orrore umano senza poterlo alleviare, dai lager ai prigionieri bosgnacchi di Omarska, dalla guerra del Vietnam alle fotografie del colonialismo, sono voyeur, anche se non è nella loro volontà esserlo – e a includersi è la stessa Sontag.
Tuttavia, nei lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald o Sachenhausen, si assiste a un voyeurismo senza soggetti da osservare – per parafrasare un’espressione della scrittrice, siamo di fronte a un ritratto dell’assenza: al cospetto della morte, ma senza morti.
Oltre al progetto fotografico del 2008 firmato da Roger Cremer “Auschwitz Tourist Behaviour”, più sottile e meno problematico di quello di Shahak Shapira, dove include fotografie di un giovane che si fa una pennichella seduto nel campo, o un gruppo di ragazze sorridenti e in posa davanti all’obiettivo, è nella pellicola “Austerlitz” (2016) del regista ucraino Sergei Loznitsa che si assiste a un esperimento cinematografico senza precedenti.
Il film, che prende il titolo dall’omonimo libro e capolavoro di W. G. Sebald, è un documentario in bianco e nero che consiste in lunghi piano sequenza statici, della durata anche di dieci minuti, filmati tra il campo di Sachenhausen e quello di Dachau. La telecamera, in maniera non intrusiva, registra le interazioni dei turisti che si muovono nei due lager, in maniera quasi interscambiabile, senza cioè fornire coordinate su dove ci si trovi tra una ripresa e l’altra. Non c’è l’entrata di un narratore o del regista nel campo sonoro, Loznitsa si limita a registrare quello che sente: il suo interesse non è quello di riproporre un discorso sull’orrore del nazional-socialismo, ma di focalizzarsi sull’interazione tra visitatori e luoghi dello sterminio e della memoria. Il regista si chiede per quale ragione una giovane coppia o una madre col bambino decidono di recarsi, in un’abbacinante giornata estiva, a visitare le camere a gas o i forni crematori. Attraverso l’obiettivo viene trasmessa la ripetitività, simile a un rituale, dei gesti dei turisti. La coda di turisti accalcati per fare una foto alla scritta sul cancello Arbeit Macht Frei, con una famiglia che con il selfie stick si scatta una foto di gruppo; la coppia che si mette in posa davanti ai forni crematori; un uomo che simula di venire legato a un palo; i turisti che seduti sull’erba del campo improvvisano un picnic prima di riprendere il tour.
La visita a un luogo come il campo di concentramento, o altri luoghi della memoria, non rivela necessariamente un desiderio di apprenderne la storia: si potrebbe essere anche spinti dal volere esperire dei sentimenti legati alla sua dimensione spaziale. Tuttavia, questo potrebbe – e l’ha fatto, in diversi casi – arrecare offesa a soggetti che vedono in questa interazione una mancata adesione a esprimere emozioni e comportamenti appropriati. Nel racconto di una visita di un gruppo di giovani israeliani in Polonia nel 2008, il sociologo Jackie Feldman racconta la loro reazione furiosa contro un gruppo di adolescenti polacchi che non davano segni visibili di lutto o shock, comportandosi esattamente per quel che erano: alcuni studenti annoiati in gita con la scuola. Tuttavia, anche qualora il turista per un occhio esterno sembri essere mosso dalla visita in questi luoghi, si insinua il sospetto della genuinità delle sue esternazioni emotive, come se fosse l’acme inevitabile e atteso di tutta quella serie di aspettative costruite intorno a blockbuster hollywoodiani come Schindler’s List o La vita è bella.
Secondo il regista di “Austerlitz”, Loznitsa, questi siti non sono luoghi della memoria, ma della dimenticanza: le audioguide sciorinano dettagli meccanici sull’efficienza dei lager come fabbriche della morte, ma falliscono nell’infondere una consapevolezza reale della tragedia. Forse perché è impossibile, perché non è concepibile anche solo immaginarla. È una manifestazione di ciò che Slavoj Žižek definisce “l’effetto d’irrealtà”: la realtà, simile a un incubo, diventa irreale perché troppo traumatica – e temporalmente sempre più distante – da accettare come vera. A oltre settant’anni dall’Olocausto, con la scomparsa dei sopravvissuti, la responsabilità della memoria è affidata ai manuali di storia, ai libri di Edith Bruck, Primo Levi, Imre Kertész ed Elie Wiesel, o ai luoghi della memoria, che sopravvivono al trascorrere del tempo stringendo un compromesso con la loro accessibilità turistica. La conclusione di Loznitsa, nella pellicola, si traduce in un giudizio sospeso. Finché le persone si sentono al sicuro e danno per scontata la propria inviolabilità di fronte alle minacce esterne, scriveva Susan Sontag, a regnare sarà l’indifferenza.
Il campo di concentramento o il memoriale non sono luoghi muti, ma a dargli voce e simbologia sono i soggetti che quegli spazi li percorrono, da un capo all’altro, calandosi come nuovi agenti e protagonisti. Se il Muro di Berlino dopo il 9 novembre si erge ancora ma ha ormai perso la sua funzione di frontiera che segna una separazione tra un qui e un là, la spazialità del lager deve essere oggetto di uno stravolgimento dell’approccio del suo visitatore. Se il dibattito cannibalizza sia chi si strugge perché sospetto di nutrire dei sentimenti plasmati più da Spielberg che dalle testimonianze reali, sia il kitsch nei comportamenti dei turisti in posa di fronte all’obiettivo, la problematica permane sul concetto di post-memoria e post-testimonianza come di un testo che deve essere costantemente letto, riprodotto e ri-significato, a cui deve essere attribuita nuova vita e un nuovo ethos nella sua trasmissione. Se il giudizio è sospeso, non si può evitare di sentirne il dito puntato sulle nostre teste.