Musica e politica, due sfere del nostro quotidiano che intrecciandosi danno vita a scontri e talvolta dialoghi. Come sosteneva già Platone nel suo La Repubblica, “i modi della musica non vengono mai disturbati senza destabilizzare le più importanti convenzioni politiche e sociali”. È quello che successe negli anni ’60, quando il folk e il rock divennero rappresentazione della rabbia giovanile, dando vita ad importanti cambiamenti nella società. Se ormai l’idea di rinnovamento suona un po’ come un’utopia perduta, la musica vive ancora del ruolo di commentatrice a tempi che, seppur mutati, non risultano certo positivi. Piuttosto – come scrive Fernando Rennis nel suo appassionante studio pubblicato da Arcana, Politics – nella disillusa modernità, trovandoci incapaci di immaginare un futuro, assistiamo a una sorta di retromania. Una vera ossessione nei confronti di un passato, concepito, almeno nel nostro immaginario, come migliore rispetto al presente distopico alla Black Mirror in cui viviamo.
Il critico musicale inglese Simon Reynolds ipotizza che questa sensazione nostalgica di ritorno a un glorioso passato, sia alla base dei due eventi più sconcertanti degli ultimi anni: la Brexit nel Regno Unito e l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump. Partendo dal concetto che musica e politica non sono separabili in quanto a circondarci è un political world, Rennis analizza i fattori che hanno contribuito ad avvolgere la società nell’odierna incertezza, affiancando a ogni momento fondamentale, la musica che ha prodotto.
Uno dei primi album reazionari all’era Bush è stato American Idiot (2004) dei Green Day, un’assordante critica nei confronti di un’America paralizzata dall’attacco al World Trade Center e successivamente dalla guerra in Iraq. Quello della band di Billie Joe Armstrong è un lavoro ambizioso che vende più di 10 milioni e il cui singolo portante, American Idiot, torna in classifica nell’era trumpiana. Nel Regno Unito invece, i Radiohead profetizzavano gli imminenti tempi oscuri nell’album Hail to the Thief (2003). La band di Oxford – commenta Rennis – porta sulla propria pelle i cambiamenti del passaggio di secolo.
Eppure neanche i flash forward dal sapore orwelliano della band di Thom Yorke, potevano anticipare il disconcerto causato dalla Brexit. Il 23 giungo 2016, il Regno Unito decide di uscire dall’Unione Europea; il giorno seguente, dal palco del festival Down the Rabbit Hole, PJ Harvey recita la poesia di John Donne dall’inequivocabile titolo, No Man is an Island. L’ironica Safe European Home cantata da Joe Strummer rimbalza nelle nostre teste.
In questi tempi pervasi da un forte pessimismo si intravede, almeno nel Regno Unito, un bagliore di speranza; è Jeremy Corbyn, supportato in patria soprattutto dai giovani. Rennis ritrae l’ascesa del leader labourista partendo dal festival di Glastonbury, quando Corbyn fu accolto dal pubblico con lo stesso entusiasmo che di solito è riservato ai musicisti. Se il leader labour è generalmente stimato nell’ambiente musicale, non è lo stesso per l’ex primo ministro David Cameron, apostrofato da Johnny Marr con le seguenti parole: “Smettila di dire che ti piacciono gli Smiths; non ti piacciono. Ti proibisco di farteli piacere”. Theresa May deve invece vedersela con Stormzy, uno dei maggiori esponenti grime, che le riserva versi taglienti sulla tragedia di Grenfell Tower.
Se il grime dà voce al dissenso politico nel Regno Unito della Brexit, negli Stati Uniti, tra 2017 e 2018, escono quattro album che dipingono l’era trumpiana dei sogni infranti: American Dream degli LCD Soundsystem, All American Made di Margo Price, American Utopia di David Byrne e America dei Thirty Seconds to Mars. Ciò che emerge dai lavori – scrive Rennis, riportando le parole di Jared Leto (leader dei Thirty Seconds to Mars) — è il ritratto di un paese instabile, che induce i suoi cittadini a interrogarsi sulla propria identità. A The Donald c’è chi reagisce con ironia, come Rocky Mountain Mike, interprete di una versione aggiornata di Mr Tambourine Man di Dylan: “Hey Mr Tangerine Man, build a wall for me”. A qualcuno però la satira non basta; la situazione è grave, Trump vuole costruire un muro al confine con il Messico e attua un travel ban, proibendo ai cittadini di paesi ritenuti pericolosi, l’entrata negli Stati Uniti. Il celebre collettivo Pussy Riot realizza il pezzo Make America Great Again, invitando il presidente americano a lasciar entrare le persone nel paese liberamente; solo in questo modo, la terra che Woody Guthrie definiva “made for you and me”, potrà tornare grande.
Successivamente il saggio affronta la questione razziale, i diritti omossessuali, la difficile posizione della donna nell’era del #metoo e il terrorismo, entrato prepotentemente nel mondo musicale con gli attentati al Bataclan e a Manchester. Dalle pagine risuonano i nomi del rapper Kendrick Lamar, denunciatore dei soprusi ai danni di persone di colore, di Beyoncé, prima artista afroamericana a fare da headliner al Coachella e di Anonhi, conosciuta precedentemente come leader di Antony and the Johnsons. Nel 2015, l’artista ha infatti chiesto alla stampa di scrivere di lei con la declinazione al femminile.
I nomi degli Eagles of Death Metal e di Ariana Grande sono ormai collegati agli attentati di Parigi del 2015 e quelli di Manchester del 2017 — l’Isis colpisce la musica per via del potere che esercita sulle menti e sul corpo. Ma quello della musica è un potere – scrive Rennis – che non accenna a diminuire. Piuttosto, sembra che l’arte e le canzoni in particolare, siano diventate la nostra unica ancora di salvataggio. Leggendo il libro di Rennis, ho pensato continuamente a una frase di John Cassavetes: “La musica mi fa sentire vivo. Il silenzio è morte”. Forse una canzone non farà la rivoluzione, ma attraverso e per mezzo della musica, continueremo a combattere e reagire — sentendoci vivi.