Per quanto cerchiate, rassegnatevi: non troverete la musica di Prince su Internet. Non potrete piangerlo pubblicando Purple Rain sulle vostre pagine Facebook, né ascoltarlo su Youtube, né condividere la vostra playlist in memoriam su Spotify. Le possibilità rimangono tre: ascoltarlo alla radio, comprare un suo cd o, tutt’al più, scaricarne (alcune) canzoni su iTunes. È questo scelta di scomparire, questa autoimposta (e relativa) damnatio memoriae ai tempi del web, l’ultima grande eredità lasciataci da colui che, con ogni probabilità, è stato il più grande ed influente musicista degli ultimi trent’anni.
Nel corso del tempo, in molti si sono chiesti perché Prince avesse deciso di tirarsi fuori dalla rete, dopo essere stato uno dei primi a comprenderne le potenzialità, economiche in primis. Basti pensare che, già nel 1999, quando ancora ai pochi possessori di una connessione occorrevano ore per scaricare un singolo brano, aveva tentato di vendere il suo Crystal Ball su Internet, con pessimi risultati. Un tentativo a cui ne sarebbero seguiti molti altri, più o meno riusciti, fino alla scelta di rimuovere le proprie creazioni da ogni luogo giudicato inadeguato, irrispettoso del lavoro che le aveva dato vita.
La mia spiegazione dell’evoluzione così apocalittica del Prince-pensiero nei confronti di Internet, che lui stesso aveva liquidato come “completamente finito” in un’intervista al Guardian, sta proprio nella sua comprensione totale di dove quel medium si stava dirigendo, e di chi ne stava controllando la rotta. Se devo accontentarmi delle briciole delle royalties, ve(n)dendo la mia musica impacchettata tra le pubblicità, tanto vale, a questo punto, regalarla direttamente, come souvenir ai miei concerti (Musicology) o come inserto di un tabloid di destra (Planet Earth). Prince l’ha fatto, capendo prima di tutti dove il digitale stesse spingendo il music business: in quel passato da incubo dove lui, come il The Kid di Purple Rain, rifugiandosi nella musica, non voleva fare ritorno.
Non occorre essere storici della musica per capirlo: guardate la prima puntata del (sopravvalutato) Vinyl e capirete che l’industria musicale americana è sempre stata fondamentalmente razzista e noncurante degli stessi artisti che le hanno dato linfa. Celato dal velo della sessualità e della provocazione, Prince, artista profondamente attento al sociale, concretamente politico, è stato il primo a denunciare lo stato delle cose, e a battersi per mettervi fine. Potete leggere ovunque di come, all’inizio degli anni ’90, nel corso della battaglia contro il colosso Warner Bros. per ottenere il controllo sulla propria immagine e sulla propria arte, si esibisse con la scritta “SLAVE” tatuata in volto. O di come sia arrivato a rinunciare al suo stesso nome – sì, Prince era Prince già dall’anagrafe – cambiandolo in un mai troppo deriso TAFKAP (The Artist Formerly Known As Prince) con il quale pubblicare album a ripetizione solo per adempiere ai propri obblighi contrattuali e riguadagnare la totale indipendenza. Ma al di là di queste che potrebbero essere giudicate, a torto o a ragione, come semplici boutade mediatiche (il famoso “purché se ne parli”…), il contributo di Prince alla causa per l’uguaglianza dei diritti politici (testimoniata dal suo recente supporto a “Black lives matter”) ma soprattutto economici della minoranza black è stato fondamentale.
James Brown è giustamente passato alla storia come il primo artista afroamericano capace di ribaltare la tradizionale logica in cui il manager (bianco) decideva della vita del proprio sottoposto (nero). Autodefinitosi, non a caso, “the hardest working man in the business”, Brown replicò, forse in maniera ancora più dura, lo stile tirannico di chi lo aveva preceduto, implementandolo con una buona dose di orgoglio da “self-made man” fondamentalmente liberista (basterà ricordare il suo appoggio spassionato alle politiche di Ronald Reagan). Per un Godfather of Soul che negli anni ‘70, accompagnato da una sparuta minoranza, tentava di ribaltare dall’interno le gerarchie dell’industria discografica e culturale in genere (ad es. con l’affermazione della Blaxploitation nel mercato generalista), cento artisti afroamericani, meno forti o, quantomeno, meno agguerriti, si trovavano costretti ad abdicare alle richieste delle proprie major. A costo di risultare blasfemo, vorrei far notare come artisti del calibro di Stevie Wonder, Ray Charles e persino quello che fu costruito come l’arci-rivale di Prince, Michael Jackson, dovettero ad un certo punto compromettere la loro arte, sottomettendola alla logica delle vendite e mettendo in vendita dischi nettamente inferiori rispetto a quelli che ne avevano decretato il successo anni prima. Basta confrontare gli album realizzati da Stevie Wonder fino ai primi anni ’80 con quelli del decennio successivo per farsene un’idea. Prince scelse una terza via, rifiutando di cavalcare la logica imperante, senza per questo rinunciare a denunciarne le storture, comprendendo che, grazie alla forza della propria musica, e soprattutto alla carica che poteva trasmettere dal vivo, sarebbe potuto sopravvivere alla guerra delle case discografiche e dei pubblicitari, oltre che alla obiettiva follia dei propri ritmi produttivi. Forse, se non fosse stato così sopra le righe, così poco “istituzionale”, ce ne saremmo accorti tutti prima: Prince era un artista politico. Oltre a rivoluzionare, come è noto, il nostro modo di concepire la sessualità, smantellando il perbenismo imperante e la rigidità dei generi, ha emancipato l’artista contemporaneo, dai distributori, dalla pubblicità, persino dalle band (Prince era un cultore del do-it-yourself), lasciandolo libero di rivolgersi al proprio pubblico, senza intermediari né reti di protezione.
È proprio riguardando i suoi live, rigorosamente su supporto magnetico, che si può capire la politica di Prince: non le sovrastrutture titaniche di Michael Jackson, non il greatest hits con tanto di orchestra per accontentare il proprio pubblico di baby boomers incanutiti (Prince pretendeva che il pubblico fosse rigorosamente in piedi), ma nemmeno le mostrine che i membri della band di James Brown si trovavano letteralmente costretti ad indossare. Prince cambiava la scaletta dei propri concerti ogni sera, alternando successi, cover di artisti che stimava (su tutti, Sly Stone) e brani sconosciuti ai più, in proporzioni sempre variabili. Chi ha avuto la possibilità di ascoltarlo dal vivo avrà percepito la sua sicurezza sul palcoscenico, il controllo autorevole, mai autoritario che riusciva ad esercitare sulla band e sul pubblico con un semplice gesto della mano. I live di Prince erano, come vuole lo stereotipo, fantastici: spontanei ma mai improvvisati, anche quando venivano organizzati nel giro di mezz’ora come flash mobs; ego-riferiti, certo, ma mai virtuosistici per il solo gusto di esserlo; lirici e tecnici allo stesso tempo; imbottiti di sesso ma paradossalmente spirituali: in una parola, proprio come Prince, liberi.