Come ritrovarsi vivi nella poesia di Montale e Sbarbaro

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versi colori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.
Eugenio Montale, Epigramma II, Ossi di Seppia, 1925

In un’intervista Eugenio Montale racconta il primo incontro con il poeta ligure Camillo Sbarbaro, aveva l’idea di trovarsi davanti un uomo folle e irriverente, un provocatore di grande stazza, e invece Sbarbaro era piccolo e minuto, addirittura intimidito.

Classe 1888, Sbarbaro fu uno dei fantasmi ispiratori della poesia di Eugenio Montale, alla ricerca di parole e immagini per raccontare i paesaggi liguri ne Gli Ossi di Seppia, tant’è che Montale a Sbarbaro dedicherà un’intera sezione e un devoto epigramma negli Ossi, rivolgendo una preghiera al tempo affinché i versi dell’amico non andassero dimenticati.

Ma quanto è rimasto oggi dell’opera di Camillo Sbarbaro nella memoria della poesia italiana? Trucioli, come la sua prima raccolta in prosa, e licheni, quelli che amava collezionare nella casa di Spotorno vuota di libri in cui viveva ritirato, con qualche salto in osteria a bere vino in compagnia.

”Restare giovani è scordare”

Per Montale Pascoli e quel suo fanciullino sono troppo mielosi, e come dargli torto. Pur mantenendo qualche punto di contatto con la fanciulla inquietudine di Pascoli che s’attacca anima e corpo alla famiglia e a sparsi sentimenti fraterni, la giovinezza barbara di Sbarbaro è ubriaca, solitaria, poetica, tanto che Eugenio Montale – sempre lui, il più grande poeta italiano del Novecento – lo definisce un autentico spirito poetico, ovvero cacciatore di parole e bellezza. Perduto a metà tra la maledizione di Charles Baudelaire, tanto che c’è chi ancora lo definisce il Baudelaire italiano, e la fuga da tutto di un Giacomo Leopardi in cerca di incisioni poetiche cariche di immagini e fanciullezze disperate, Sbarbaro è un dannato che si acquieta, e il cui stile è necessariamente decadente.

Contemporaneo dei crepuscolari, e di quel Sergio Corazzini che ci lascerà troppo presto per assecondarsi alla morte (”Tutta la dolce, rassegnata tristezza della mia vita è in un pensiero di morte”), in realtà Sbarbaro non abbracciò nessun movimento poetico italiano, e del crepuscolarismo fece suo solo il dolce pensiero del riposo (”E penso la mia morte / e mi vedo già steso nella bara / troppo stretta fantoccio inanimato”). Eppure nell’angoscioso rifiuto di Corazzini della parola poeta (”Vedi che io non sono un poeta: / sono un fanciullo triste che ha voglia di morire”) c’è tutto il vivo rifiuto urbano di Sbarbaro: ”per mero accidente incappai nella fama di letterato”, confida a Ferdinando Camon, unico a cui riuscì di intervistare il poeta che rifuggiva le interviste (”Di interviste ne accettai una e non ebbi a rallegrarmene. Altre due, prive d’un minimo di serietà, mi vennero fatte di sorpresa”).

La gioventù dell’estroso fanciullo si approfondisce e ferisce nei versi di Pianissimo, opera imprescindibile della poesia di Sbarbaro, capolavoro da riscoprire che influenzò tutta la poesia del Novecento, dove insieme al fantasma onnipresente del padre compaiono immagini furtive di ubriachezza in osteria, di un’umanità fraterna e ritrovata grazie alla complicità del vino, la Lettera dall’Osteria all’amico Volta è un disperato invito a unirsi a bere, ad attaccare discorso con chi capita e voler bene a tutti, nello stato di grazia che solo il vino riesce a dare allo spirito, ”Poi che dato non m’è d’amare alcuno / m’aggrappo come naufrago alle cose’‘, e il naufragar m’è dolce in questo mare sembra gridare Sbarbaro all’amico. Eppure il fraintendimento è dietro le porte, tra i versi più belli del furetto ligure Ora che sei venuta rapisce immediatamente, ed evoca immagini meravigliose. Poi si scopre che è dedicata a una vecchia zia, ma ognuno la legga come vuole.

Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa –
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.

”Mi abituerò a sentirti o a decifrarti”

L’attesa e l’assenza sono gli inquietanti mostri che aleggiano nei disperati versi di Sbarbaro e nello Xenia di Montale, dedicato alla moglie morta. La perdita di un punto di riferimento, che per Sbarbaro si condensa nella memoria paterna, e per Montale nella compagna con cui scese dandole il braccio un milione di scale, è affrontare la morte a viso duro con le parole, giocare con lei, e dentro quei versi ritrovare i sentimenti umani che ci sfuggono tutti i giorni, continuando a vivere (perduti nel caos delle giornate) come se nessuno sapesse (cfr. Camus). Come se nessuno sapesse che la corsa che si fa quaggiù è verso la morte, eppure se ci si arrendesse a questo solo unico grande pensiero tutto diventerebbe inutile, e come poeti ci aggrappiamo furiosamente a tutto quel che resta. Unico modo per scacciare via quel pensiero. E in quell’unico immenso pensiero poi se ne condensano altri: i volti che in qualche modo abbiamo amato, le lotte disperate, il furore del tempo che si sostituisce e rinnova, i sottintesi che diventano sottotesti, e l’evocazione di mille parole da decifrare senza cavarci niente.

La poesia testimonia e restituisce tutto questo, e dentro di lei ci ritroviamo vivi e ululanti, perché in fondo la verità è nel corpo, nel vino, nei sensi, e lì stagna e cresce, e per questo la poesia non potrà mai morire, o esser cacciata via dal tempo e dallo spazio. Perché nella parola sorriso evocheremo sempre quel sorriso, perché nella parola assenza saremo abituati a ritrovarla quest’assenza, e nel verso ”Ora che sei venuta” non vedremo mai la zia di Sbarbaro, neanche con la più furiosa delle immaginazioni, ma il nostro intimo latrato.

Uno dei versi più belli venuto fuori dal Novecento e dalla fantasia di Montale è anche uno dei più disperati, perché prova un’evocazione impossibile, quella della compagna morta dall’aldilà. Uno dei versi più belli del Novecento è anche uno dei più tristi, perché il poeta spera di esser morto e fischia da solo sperando che lei risponda. Sappiamo tutti che nessuno ha fischiato.

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

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