PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project

Una donna complessa come Polly Jean Harvey non poteva che sedurci – e conturbarci lo spirito –  con un disco corposo come The Hope Six Demolition Project. L’attesa è stata lunga, lo aspettiamo da circa un anno, da quando lo scorso gennaio ci aveva sorpreso con la performing art di registrare l’album alla Somerset House di Londra per il progetto Recording in Progress: i musicisti si esibivano dentro un vetro isolato da suoni esterni per non avere distrazioni, e la performance di registrazione era aperta al pubblico. “La migliore parte del processo di creazione è quando stai creando”, aveva detto Polly Jean.

L’attesa è stata lunga anche perché PJ non ha rivelato molto, ci siamo dovuti accontentare di qualche singolo che ha anticipato l’intero album, come The Wheel e The Community of Hope. Già qui potevamo respirare una certa complessità nel sound dell’intero disco. The Wheel è un cacciabombardiere che colpisce dall’alto e fa fuori ogni speranza di redenzione.

Che PJ Harvey sia una delle migliori artiste in circolazione nel panorama contemporaneo non lo scopriamo di certo oggi. La sua irrequieta ricerca è un fattore che ci conquista sin dagli esordi, quelli più forti e duri in cui una ragazza inglese ci apriva alla sua contestazione sonora e a una chitarra sfrenata. Nel 2007 l’album White Chalk lasciava presagire un cambio di rotta nella sensibilità dell’artista inglese, sonorità più soft, suoni più complessi e modi di cantare meno dirompenti del solito. L’urlo assassino che ci aveva smosso su pezzi come Rid of Me o Who the Fuck?, ora diventava quasi un falsetto melodico e struggente.

Come una Emily Bronte nella brughiera inglese, Polly ci presentava la sua nuova novella disperata, arricchita da strumenti diversi dalle solite chitarre ruggenti, il canto si affinava e cambiava strada e umore per tutto il corso del disco, tanto che per alcuni risultò un cambio troppo brusco per seguire ancora le vie impervie scelte dalla Harvey. Ma chi ha sentito suonare dal vivo quell’album non è affatto convinto che quel disco sia stato un tradimento morale alle origini: come ogni grande artista Polly è andata avanti nella sua ricerca.

Così Let England Shake ha proseguito questo percorso, stavolta Polly ha voluto calarsi direttamente dentro la storia inglese. Tutti i discorsi che ha provato a sviluppare fino a ora sembrano ora aprirsi magnificamente dentro questo nuovo disco, un’esperienza complessa ma altrettanto gratificante. Gli occhi della Harvey ora si spostano a guardare l’America, e il mondo intero come teatro di una guerra e di uno scontro, in cui i bambini dimenticati sono alla ricerca di dollari.

Per questo disco PJ ha viaggiato, ha scritto versi e poi ha pensato alla musica. Anche con John Parish, ormai fidato co-arrangiatore dei suoi pezzi. Nel team che ha lavorato al disco anche i nostri due connazionali Enrico Gabrielli (come non riconoscere certi vezzi) e Alessandro Stefana dei Guano Padano. Un team di tutto rispetto: troverete clarinetti, fischietti, percussioni, sassofoni, armonica, tastiere, e – ovviamente – le chitarre. È chiaro che la registrazione stessa del disco in questo caso sia un vero e proprio atto creativo, un’orchestra che incastra i suoni perfettamente.

Parallelamente la Harvey ha lavorato all’uscita di un libro di poesie, The Hollow of the Land, in compagnia del fotografo irlandese Seamus Murphy: il libro racconta l’esperienza del loro viaggio tra Kosovo, Afghanistan e Washington. Washington è anche la città di cui si narra in The Community of Hope, pezzo che ha scatenato le ire dei politici rampanti in città, addirittura il sindaco Vince Gray ha dichiarato che la canzone non fosse neanche degna di risposta. C’è un aneddoto molto più divertente che ha raccontato invece il reporter Paul Schwartzman, l’uomo che ha portato in giro una rock star per la capitale Usa senza sapere chi fosse. Seamus Murphy è il tramite: contatta Schwarzman per sapere se può accompagnare in giro per la città una famosa musicista inglese, e Paul accetta. Salendo a bordo dell’auto di Paul, Murphy – seduto davanti – comincia a scattare fotografie della città, mentre la misteriosa donna è sul retro a prendere appunti. Il fotografo irlandese racconta al reporter il loro progetto, sono già stati in Kosovo e Afghanistan, ora vogliono vedere Washington. Quando torna a casa Paul è confuso, chi era la donna misteriosa che se ne restava in silenzio sul retro dell’auto a scrivere appunti? Dopo aver googlato gli viene in mente che il padre della migliore amica della figlia è Brendan Canty dei Fugazi, non resta che chiedere a lui. Canty alla domanda scoppia a ridere: hai passato tre ore con PJ Harvey senza sapere chi fosse?

The Community Of Hope è il pezzo che inaugura la catarsi di The Hope Six Demolition Project. L’intero album è arricchito dai backing vocals di tutto il team che ha lavorato alla registrazione, da John Parish a Mick Harvey, da Terry Edwards a Flood. The Ministry of Defence parte fortissimo, quasi ci riconsegna la vecchia anima rock di Polly Jean, ma è anche un intarsiarsi di cori che si rincorrono come dentro una cavalcata gospel, stessa sensazione che coglie nell’attacco di Near The Memorials to Vietnam and Lincoln. Ma del resto non sarebbe stato possibile ripartire da Washington senza un po’ di gospel da portare a casa.

È difficile raccontare questa complessità  – soprattutto ai primi ascolti -, il sound si disperde e riunisce tra i sassofoni di The Ministry of Social Affairs, i tamburi che scandiscono quasi un ritmo da vecchia guerra in Chain of Keys, e le tastiere di River Anacostia. Forse se separassimo le tracce di tutti i suoni che sono stati mixati per ogni pezzo dell’album riusciremmo a cogliere anche con più forza la potenza dell’intero progetto (questo disco è anche un esperimento, una sorta di Pet Sound della Harvey). Ancora una volta PJ Harvey è capace di affascinarci, rapirci e narrarci una storia in forma di musica. Chi siano questi bambini che alla fine dell’album implorano un dollaro (Dollar, Dollar) lo sappiamo, magari anche grazie a PJ ce ne accorgeremo di più prossimamente. I quartieri urbani, le periferie dimenticate, le storie derelitte e abbandonate, le guerre e le ricostruzioni, i volti sfatti: il mondo è spezzato, ma l’arte può ridarci speranza.

Questo Demolition Project non resterà nella memoria solo come una meravigliosa esperienza musicale, ma anche come una testimonianza artistica e poetica di una delle artiste più complesse e visionarie dei nostri tempi. È qui il cuore della faccenda.

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