Pixies – Beneath the Eyrie

«So I’ll say it once again. I am ready for love». Sono di nuovo pronti i Pixies. Ma questa volta non c’entra nulla il successo, la carriera o le classifiche. C’entra l’amore. Niente di romantico e passionale, sono pronti per quel sentimento di indulgenza e maturità rivolto agli altri ma prima di tutto a se stessi e al proprio percorso. Amore come serenità, che invade le tracce di Beneath the Eyrie, l’ultimo album della band statunitense – Black Francis alla voce, Joey Santiago alla chitarra, David Lovering alla batteria e Paz Lenchantin al basso – la cui importanza per la musica difficilmente è spiegabile a parole, nonché il terzo senza Kim Deal. Dodici tracce, pubblicate dalla loro nuova etichetta discografica, Infectious/BMG, di conferme di come il tempo o le formazioni contino poco quando l’anima di una band ancora permane in uno solo degli strumenti che vi hanno dato voce. 

È quella scintilla che si riaccende – se si fosse mai spenta ma comunque addormentata in Indie Cindy e Head Carrier – per scrivere un altro capitolo. Fatto di musica e di testi. Un capitolo come tanti altri che, però, questa volta sembra avere la responsabilità di dover chiudere una lunga saga. Come consapevole che non può esserci nostalgia nelle leggi del tempo e della storia e che prima di continuare bisogna in parte lasciar andare. Senza rincorsa, musicale ma anche canora, e godendosi ogni attimo nella saggezza di sapere che ogni nota del passato non poteva essere diversa da quella che è stata. 

Così, in un disco che sa di una lunga notte di luna, c’è la leggerezza di scoprire sonorità coraggiose che mixano la psichedelia al gotico, ma anche suoni garage punk-rock di quei Pixies unici degli anni Ottanta e di band che di quei suoni ne hanno fatte proprie alcune sfumature. E come per ogni lunga notte, ci sono storie e volti. Sin dal primo brano “In the Arms of Mrs. Mark of Cain”, con un giro di chitarra che apre a mondi dimenticati. «I’m not proud/But I know that I’m sane (…) If you doubt/And you think I’m profane/ I’m in the arms of Mrs. Mark of Cain».

E di braccia in cui perdersi nel disco ce sono tante. Come quelle di Kate che lottano con un pesce gatto, ma anche braccia che conducono alle tenebre, come cantano nella grintosa On Graveyard Hill: «And when the moon grows smaller, donna picks out a flower, givers her a witchy power». 

Quel gioco tra streghe, gotico e magia, tiene sotto scacco This is my fate. Un brano divertente, spigliato ma macabro, come – ma sono di parte – sa essere solo un film di Tim Burton, senza però riuscire a calare le tenebre su una notte serena e luminosa, così senza perdersi, «perché non bevi un drink/questo è il mio destino». E torna il tema dell’accettazione, che esplode in Ready for Love, una frase che non ha sapori di ingenuità o tristezza, ma solo di inizio.  

«I’m no poet, not a sailor

I don’t ride the setting sun

I’m succeeding as a “failer”

But I don’t want to hurt no one»

Il disco prosegue tra piccole sorprese e ampie certezze, come St. Nazaire che su giri di chitarra direttamente dal passato, sfoga un ritmo rock n’roll solo sopito. O lo stesso Los Surfers Muertos, dalle note severe ma dalla voce dolce. Il movimento psichedelico, invece, è tutto per Bird of Prey, brano dinamico anche se a tratti nostalgico. Il gran finale è affidato a Death Orizon che come ogni film ne diventa i titoli di coda. Il sipario che cala su un disco che ha il compito di dire: no i Pixies non sono in pensione. 

Insomma, sarà deluso il manipolo di avvoltoi pronto a celebrare l’ennesimo funerale musicale della band dopo due sfide che non hanno fatto altro che aumentare la nostalgia per il pre-reunion sperando che Black Francis & Company cascassero di nuovo. O comunque sarà deluso nel rendersi conto che anche in questo caso la musica non ha un’età, una città o un’epoca. Ha un amore, romantico a volte e maturo altre. Capace sempre, quando è vivo, di trovare il giusto linguaggio per raccontarsi. 

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