Nelle scorse ore il gruppo Condè Nast ha annunciato l’accorpamento di Pitchfork alla rivista maschile GQ, intanto alcuni redattori comunicavano sui social di essere stati licenziati. Che siate o meno lettori di Pitchfork, la notizia ci interroga su come i grandi gruppi stanno trasformando e divorando l’ecosistema digitale.
Al lungo Pitchfork ha provato a interpretare il proprio tempo sfruttando le potenzialità del digitale. Alla fine dei Novanta internet scombussolava i giochi: ai blog e alle riviste online bastava una connessione internet per raggiungere i lettori gratuitamente. Quando a metà anni Novanta Ryan Schreiber apre il blog di Pitchfork, è ancora un giovane ragazzo dai giovani sogni, non può sospettare che il Forcone si sarebbe affermato come un punto di riferimento nel mondo della musica indipendente. Ma il tempo brucia in fretta, e vent’anni dopo Pitchfork viene rilevato dal gruppo Condè Nast.
Nel corso dei suoi primi due decenni di vita, Pitchfork è stato seguito e odiato. Capitare sulla recensione di un disco poteva rivelarsi un’esperienza disturbante o stimolante, il tono definitivo degli editor poteva dare ai nervi, ma c’era un’audacia diversa dall’ironia di prodotti di intrattenimento come Vice; più che cavalcare ondate, Pitchfork aspirava a dare una visione della musica. I suoi articoli potevano essere arroganti, attirare contestazioni, ma dietro c’era cura. Quando scriveva di Arcade Fire, Bon Iver, Broken Social Scene, The National, Joanna Newsom, Pitchfork si poneva come portavoce di un movimento, ma la sua ambizione da bibbia indie poteva arrivare a sconfinare nel pop. Con gli anni il sito provò a rendere possibile la convivenza tra Sufjan Stevens e Beyoncé.
Scrive Spencer Kornhaber su The Atlantic che nel secondo decennio dei Duemila le piattaforme di streaming come Spotify avevano già cominciato a rendere obsolete le recensioni dei dischi; Pitchfork si adeguò dando più spazio a hip-hop, pop, dance. La volontà di sopravvivere in un ecosistema dove l’algoritmo tende a premiare ciò che è popolare rendeva forse impossibile compiere scelte diverse: bruciare in una fiammata o rincorrere il nuovo corso. Pitchfork scelse di aprirsi alle nuove generazioni cercando un equilibrio tra la svagata purezza alternativa e le tendenze più contemporanee.
Rilevata da Condé Nast nel 2015, la rivista perse la sua indipendenza e si evocò già la fine; l’annuncio della fusione con GQ ha animato i dibattiti sulla morte di Pitchfork, ma forse dovremmo parlare di un altro segno dei tempi. Il giornalista Jeff Weiss su X ha notato come il supporto delle etichette discografiche che negli anni ’90 e a inizio 2000 andava alle riviste musicali, oggi venga dirottato esclusivamente verso TikTok, Instagram, YouTube. Pare che leggere un articolo stia diventando una perdita di tempo quando i social sono così veloci e pratici. I social hanno cambiato ancora i giochi. Le sterminate terre selvagge di internet si sono presto concentrate nelle affollate metropoli dei social network, dove i conglomerati sono i re indiscussi.
Laura Piton sul Guardian scrive che la decisione di Condé Nast e i licenziamenti dello staff, sono un esempio di come i conglomerati di media danno priorità al capitale rispetto alla cultura. Chris Richard sul Washington Post parla di cattivo presagio per l’intero giornalismo musicale. Se la musica inizia a diventare un’appendice di costume, un inserto di GQ, non è folle prevedere che il potere di decidere si concentrerà nelle mani di grandi etichette e multinazionali a discapito delle esuberanti energie di piccole band e realtà. Non è chiaro come funzionerà la fusione, se Pitchfork manterrà vivo il sito o finirà sotto la supervisione di Anna Wintour; ma si narra che dalle notti peste nascano caotiche stelle. La strada delle realtà indipendenti è impervia, ma la rete potrebbe ancora essere capace di creare nuovi spazi dissidenti per illuminare le più folli vie alternative.
Un periodo difficile per i media in generale
In realtà, non è solo il giornalismo musicale a passarsela male: l’anno scorso, diversi gruppi editoriali – tra cui BDG, Disney, Vox Media e lo stesso Washington Post – hanno annunciato licenziamenti per 19,000 posti di lavoro. Un numero decisamente più alto rispetto al 2022, quando i posti tagliati furono solo 3000.
Anche Vice Media ha chiuso diversi dei suoi show e interi team sono stati fatti fuori con una email inviata allo staff, che cita: “è un periodo difficile per i media in generale“. L’azienda ha dichiarato bancarotta lo scorso maggio e venduta per 350 milioni di dollari a luglio.
La ragione del declino è legata ad un mercato delle pubblicità sempre più volatile e sempre meno vantaggioso per i media: in poche parole, Google, Meta e Amazon si stanno mangiando tutti i profitti. Altrettanto difficile è che questa tendenza possa cambiare nel corso di quest’anno, anzi: quello che succede in US, di solito arriva con leggero ritardo anche in Europa (con le dovute differenze di mercato).
Ci troviamo nel mezzo di un periodo storico di transizione sotto molti punti di vista e i media sono in totale ridefinizione: è possibile immaginare un mondo senza giornali indipendenti? Noi preferiremmo di no.
a cura di Gio Taverni e Alessia Melchiorre