Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza.
Personalmente credo di avere un problema con i libri troppo lunghi.
Chi al mondo può essere così smoderatamente narcisista da voler sentire la voce nella propria testa per centinaia e centinaia di pagine?
Per i libri come nella vita, credo che prima di iniziare qualcosa di nuovo, bisogna portare a termine quello che si è iniziato, metterci tutto l’impegno possibile, e poi passare ad altro; così ho impiegato circa 5 mesi per finire questo libro di 880 pagine.
La gente che conserva queste mazze e queste palle, che tramanda le vecchie storie grazie alla tradizione orale e conosce i soprannomi di un migliaio di giocatori, si ritrova come me in un seminterrato con una storia fantastica appesa alle pareti. E le dirò di più, e vedrà se non ho ragione. Negli anni a venire ci saranno uomini disposti a pagare una fortuna per questi oggetti. Pagheranno cifre incredibili. Perchè qui è la disperazione che parla.
DeLillo prende a prestito una tecnica hitchockiana, il MacGuffin, che in questo caso è la palla del fuoricampo del più grande incontro di baseball della storia, una partita leggendaria, tra Giants e Dodgers, per raccontare la società americana in un periodo lungo 40 anni.
Il primo possessore della palla è Cotter Martin, ragazzino afro-americano che riesce a soffiare la palla agli altri spettatori, approfittando della bolgia e dell’euforia nello stadio.
Il padre di Cotter, Manx, non crede che tenere la palla sia una buona idea, meglio avere qualche soldo in più nel portafoglio, la rivende quindi per 34 dollari e qualche moneta.
Da questo momento la palla passerà di mano diverse volte, raccontandoci la vita dei suoi possessori e delle persone a loro vicine.
La guerra fredda, la paura di una guerra nucleare, la segregazione razziale, l’assassinio di JFK, la guerra in Vietnam, omicidi, amori, tradimenti, la crisi missilistica cubana, la vita, la morte, fanno da sfondo all’America narrata dall’autore.
Sono tanti i personaggi che partecipano a questo romanzo.
Il protagonista principale è Nicholas “Nick” Shay, alter ego di DeLillo: entrambi autoctoni del Bronx – quando il Bronx non era la nuova Brooklyn, e Brooklyn non era la nuova Manhattan – Nick è cresciuto senza il padre, scomparso misteriosamente.
Colletto bianco di origine italiana, si occupa del prodotto del consumismo americano, la spazzatura, ed è l’ultimo possessore della palla da baseball.
Don DeLillo è uno dei più grandi scrittori americani contemporanei e Underworld è considerato una delle sue massime opere, se non la più grande.
Un capolavoro del postmodernismo. Capite bene che è difficile misurarsi con un libro che viene definito “capolavoro”: se questo poi non soddisfa le – alte – aspettative?
Non fraintendetemi, io amo il DeLillo di Americana, Rumore Bianco, Giocatori, Cosmopolis, ma non posso dire di averlo amato per Underworld.
Ho trovato questo libro difficile, farraginoso, inutilmente e fastidiosamente lungo: troppe le digressioni, troppi i salti temporali, troppi stream of consciousness.
Se anche voi come me amate i dialoghi del maestro americano, così scorrevoli e pieni di verità, Underworld non fa per voi, infatti questo libro ne è quasi privo: in compenso sono molti i pezzi descrittivi maniacalmente lunghi.
Ma forse è colpa mia; solitamente riesco a capire DeLillo. Questa volta, purtroppo, ho fallito.
Lei disse: – Io lo so cosa fai. Tu resti sveglio a guardarmi mentre dormo.
– Quand’è che dormi?
– Tu vuoi troppo. Vuoi strisciare dentro di me, praticamente. Vuoi seguire il tuo cazzo ed entrarmi dentro. Chi l’avrebbe mai detto?
– Pensa a guidare.
– Sul serio, chi l’avrebbe mai detto?
– Non guardami mentre guidi.
– No, sul serio chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei conosciuto un uomo capace di seguirmi fino in bagno?
– Pensa a guidare.
– Adesso me lo ricordo, – disse lei, – volevi infilarti con me nel cesso di quel distributore di benzina. Me n’ero quasi dimenticata. Perché temevi di perderti qualcosa.