Pietà. Basta con i film dell’Estremo Oriente

Festival del cinema, proiezioni di film d’essai e cineforum hanno il pregio di dare ospitalità a tanti appassionati. E anche a parecchi svitati. Sarebbe troppo facile elencare qui le tipologie di spettatori che affollano le sale (ma prima o poi ci cascherò), però vale la pena soffermarsi su una categoria di pellicole che, negli ultimi anni, ha calamitato sciami di critici e cinefili: quelle in arrivo dall‘Estremo Oriente.

In principio fu Kim Ki-Duk con i suoi surrogati del propofol. Film preziosi (L’arco, SoffioPietà) in cui i protagonisti pronunciano meno sillabe di quante ne siano contenute nel titolo. Ma il regista coreano, oltre ad essere un curioso incrocio tra Briatore e una massaia di Avellino, pare sia anche un genio. Perciò ce lo teniamo.

Tuttavia Ki-Duk ha anche aperto la porta a un esercito di suoi colleghi: Park Chan-Wook, Chen Kaige, Lee Yoon-Ki e altre decine di nomi che potrei benissimo sostituire con la formazione della Corea del Sud e non credo ve ne accorgereste. Negli anni di pellicole ne sono sbarcate parecchie. Talvolta produzioni interessanti, molto più spesso ermetici enigmi in salsa di soia.

Silenziose inquadrature di sterminate risaie, impiegati alienati affetti da zooerastia e dialoghi in lingua originale sono stati rinvenuti un po’ ovunque. Le retrospettive sul thriller taiwanese anni ’70 sono uno dei pochi settori in crescita negli anni della crisi: un po’ perché fa bello dire che “la nostra rassegna guarda a levante” e un po’ perché il pubblico effettivamente c’è.

Anche la Mostra del cinema di Venezia, negli anni di Marco Müller direttore artistico, spostò il suo bacino ad est. In fondo, per chi in sala cerca l’esotico, il cinema orientale è una delle poche vie percorribili: i registi africani iniziano ora a prendere confidenza con il Super 8 e le trame dei film est europei sono nel 90% dei casi la storia di Irina, la badante moldava di vostra nonna.

Sia chiaro, anche a me piace più di qualcosa delle produzioni asiatiche. Ad esempio Kurosawa e Miyazaki (almeno i film che ho capito). Per non parlare dei video di Psy. O i cappa e spada cinesi (La tigre e il dragoneHeroLa foresta dei pugnali volanti), che sembrano la versione cagariso di Fantaghirò, ma almeno mi hanno fatto capire come, non essendo dignitoso guardare i cartoni animati superati i 18 anni, esistessero dei validi surrogati di Dragon Ball.

Detto questo mi metto nei panni di un giovane cineasta italiano. Ok, voler vivere del lavoro di regista equivale a giocare alla roulette. E volerlo in questi anni è un po’ come puntare sul 42. Però dev’essere frustrante osservare il tuo filmetto – fosse anche una pellicola introspettiva in cui inquadri ossessivamente tua cugina mentre si fa tagliare le unghie dei piedi dall’estetista – abbandonato sulla scrivania, mentre a Termoli si inaugura la seconda edizione dell’Hentai Anime Festival.

I film di merda sono sempre film di merda e, in fondo, preferisco veder scorrere immagini della giungla vietnamita piuttosto che della periferia brianzola. Però per smanie naturaliste ed esotismo grazie a dio c’è Alle falde del Kilimangiaro, che mi ha insegnato moltissimo sull’attività sismica del Giappone senza costringermi alla visioni degli amplessi tra un vecchio di Osaka e lo studente suo vicino di casa.

Allora in bocca al lupo, giovane regista italiano. Se però posso permettermi un consiglio sul profilo commerciale delle tue produzioni, io, quella cosa morbosetta sui piedi di tua cugina, la girerei in un salone di bellezza cinese.

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