Pierre Michon con Vite minuscole rompe il silenzio di una vita interamente e tacitamente votata alla scrittura, segnata da un lungo e sofferto corteggiamento del linguaggio, che solo a 37 anni si è piegato docilmente alla mano dell’autore. Libro d’esordio dello scrittore, pubblicato in Francia nel 1984 e in Italia solo nel 2016 per Adelphi, Vite minuscole è composto da otto brevi biografie incentrate su personaggi che hanno contornato l’infanzia e la crescita di Michon, che lo hanno seguito, presenti o assenti, fino alla pressoché compiuta autodistruzione, l’oblio di droghe, alcool e annullamento che ha preceduto il suo primo vero approccio alla scrittura.
L’intero libro incorpora e ramifica questa fatica, è una battaglia contro la pagina bianca, che produce di riflesso una lotta contro la realtà, prepotente, imperiosa e paradossalmente sfuggente, perché inconsistente e inutile se non proferita. Ogni storia assume densità solo se nominabile. Tramite una capacità percettiva pregnante e fulminante, Michon vivifica un linguaggio sdoppiato in menzogna/verità, dovuto all’appiattimento del valore della realtà e a una riscoperta dell’Essenza. Così ogni parola è tradimento nei confronti del fatto, bugia, invenzione, eppure recupero di ciò che conta realmente. È il linguaggio definitivo che nomina, fa esistere e modifica questi personaggi dimenticati e abbandonati all’autodistruzione, prede di una forza centrifuga di allontanamento nel tempo e nello spazio. Nell’attimo stesso in cui l’assenza si impone nel vuoto di quello che fu, Michon ostinato non rincorre per scoprire, ma inventa per sapere: non abbandona mai il suo sguardo sbarrato dall’ignoranza degli eventi, rifiuta l’onniscienza, ma nel farlo scrive e disegna ipotesi, tutte ugualmente finte, tutte ugualmente vere. Ogni mancanza dilata lo spazio bianco della pagina, e contemporaneamente lo contagia con il desiderio di sostituire persone e momenti con nomi e immagini che, nel momento in cui vengono incistati sul foglio, danno vita a una Verità Altra, forse l’unica che conta.
Così queste “vite minuscole”, di campagna, periferia e bassifondi, intrise di qualsiasi tipo di fuga (partenze o alcolismo), questi volti segnati dal passare delle stagioni, crocifissi ai campi e a una realtà rurale immutabile, eppure vibranti e in movimento, iscritti come tumori in crescita nella circolarità della quotidianità e della natura, oppure iniziatori di nuove linee esplorative frenetiche e senza vettore, queste vite così meschine conficcate nella gola a lungo afona di Michon, diventano urgenza di una mitologia, una “Leggenda privata” nella tessitura del racconto. Si potrebbe dire che di minuscolo c’è l’insignificanza non nominata, ma che deve essere proferita per riscattare in primis la Parola, e in secondo luogo le persone, piccoli dei, eroi, assenze pesanti o vuoti in ricerca di un pieno.
Seguendo questo principio, André Dufourneau, il primo a ribellarsi all’inerzia dei cicli stagionali, attratto dalle promesse di riscatto dell’Africa, viene descritto così:
“e per un attimo oso pensare, sapendo che non fu così, che ad attrarlo là non fosse tanto la volgare lusinga della fortuna da accumulare quanto una resa incondizionata tra le mani dell’intransitiva Fortuna […]; che partisse come un ubriaco bestemmia, emigrasse come un ubriaco ruzzola a terra. Oso pensarlo. Ma parlando di lui parlo di me e non posso disconoscere più a lungo quello che fu, suppongo, il motivo essenziale della sua partenza: la certezza che laggiù un contadino diventava un Bianco, e fosse anche l’ultimo dei figli malnati, deformi e ripudiati della lingua madre, era più vicino alla sua sottana di un Peul o di un Baulé […]; lei gli avrebbe conferito, insieme a tutti gli altri poteri, l’unico che conti: quello che strozza ogni voce in gola quando si leva la voce del Buon Parlatore”.
André non è una semplice pedina della scalata sociale, ma un eroe in lotta con il dominio della lingua, in viaggio per il recupero della parola sempre così inadeguata, della sua umanità. Già dalle prime pagine Michon si rifiuta di percepire la lontananza (dissolta nelle generazioni precedenti e nello spazio) come una realtà frantumata e solitaria, al contrario istituisce un cordone che si fa spazio tra le macerie e i silenzi del passato, per recuperare un’origine comune, una compagnia nella lotta. Mitologia e unione: è la stessa scrittura lirica e grumosa che si ripresenta nel racconto dei fratelli Bakroot, al netto del realismo due semplici ragazzi di provincia incontrati nel collegio, ma trasfigurati in cavalieri fiamminghi in perenne guerra tra di loro (il che vuol dire in guerra contro i lati più fragili di loro stessi):
«La stessa pioggia o le stesse lacrime scorrevano sull’uno e sull’altro; e al di sopra dei due volti usurpati con violenza dall’ombra, ma che a sprazzi rivelavano l’identico colorito gessoso, il vento drizzava due zazzere uguali. In quel gioco di specchi soffrivano entrambi i bambini. Si assomigliavano come fratelli.»
E ancora:
«I fratelli Bakroot erano i rampolli dispersi di una specie di mistero medioevale, terrigno, insomma fiammingo; verso quel Nord la mia memoria li scaglia; lassù arrancano senza fine, l’uno incontro all’altro, in una landa di torbiere, di distese brulle e assediate dal mare, di polder e patate nane, sotto un cielo immensamente grigio alla maniera del primo Van Gogh…»
Il maggiore dei fratelli insegue, a malincuore, le pagine dei classici, agognando una qualche forma di sollievo per un male nato e consumato in seno all’indicibile, duro e cocciuto, che cerca di bucare invano attraverso la sua bulimia letteraria. Di nuovo, dopo la mitologia, troviamo l’unione e la compassione, in uno dei più significativi passi del libro:
«il difetto dell’armatura, chissà dove tra due righe, che tremante presumi e cerchi, che ti aspetta in fondo alla pagina, alla fine del capoverso, è eternamente introvabile, vicino e sfuggente; e il giorno dopo la bracchi di nuovo, quell’asola sottile, stai per scoprirla, tutto sarà rivelato e una buona volta potrai smettere di leggere, ma giunge la sera e richiudi la pagina di inespugnabile piombo, sei divenuto piombo tu stesso.»
Il fratello minore esercita invece le dita agili sotto le sottane delle ragazze e, a dispetto delle mani del fratello scorticate dal piombo della pagina, dal rapporto alchemico con la parola, incarna il presente delle cose e nelle cose, a cui il letterato ha rinunciato per incapacità o bisogno, ma che continuamente batte sui polpastrelli dello scrittore, «il presente invincibile era sempre lì davanti con l’aspetto di Rémi».
Anche il racconto di Eugène e Clara, i nonni di Michon, si iscrive nel rapporto dicotomico di presenza-assenza, mai compresenti e anzi capaci di generarsi vicendevolmente e di sparire nel momento di apparizione di uno dei due poli. Ogni testo nasce da un’assenza, il “forse” lambisce i contorni del vissuto, tuttavia dà vita a un chiaroscuro che diventa un’arma e non una mancanza: lungi dal cercare la veridicità dei fatti, il racconto assume una duplice importanza: quella di esprimere la Verità (e non la veridicità) e quella di poterla inventare, laddove la vita è stata carente. Per la prima volta, in Vite di Eugène e Clara, attraverso l’omertà degli altri personaggi, viene nominata la vera, irriducibile assenza nella vita dello scrittore: il padre. Questa mancanza incensata di silenzio sacrale, quasi timoroso, è il vero occhio del ciclone alla radice di tutte le perdite, è il nome cancellato che ha precluso gli altri.
Eppure, l’ossessione di Michon per la scrittura nasce dal tentativo di sostituire il padre biologico con quelli letterari (primo tra tutti Rimbaud), nel recupero della solidità patriarcale di un atto deittico esterno che dica “questo è, e così si chiama”; allo stesso modo i parenti si distribuiscono come in veglia, attorno all’assente cadaverico, innominabile e onnipresente, diventando cadaveri loro stessi: «mi stupivo di non essere morto, ma solo ignorante, addolorato e incompleto, infinitamente.» C’è una frase, riferita al padre, che mi sembra sintetizzare ogni tipo di rapporto istituito da Michon, che sia esso con la realtà, con la scrittura, o con la figura paterna: «ognuno di noi portava il sé lo spettro dell’altro, e che per l’altro era spettro; eravamo per l’altro sia cadavere sia manifesto.»
È chiaro ormai: il fulcro del libro non sono le biografie, ma il rapporto tra parola e materia, condensato nella prosa, nella pagina stessa. Quella di Pierre Michon in Vite Minuscole è una parola definitiva, sono frasi stracciate alla ricerca del Verbo, che nel tirarsi verso l’assolutezza si sfilacciano e frustano il lettore con la perentorietà di un lessico volto all’essenziale e aulico allo stesso tempo. È una retorica “al servizio di”, che evita i virtuosismi pur mantenendo un altissimo valore lirico, che rimane asciutta ma spessa allo stesso tempo, e per cui si ha l’impressione che ogni parola sia e non possa essere altrimenti. Dall’altro lato, le frasi e le immagini si rincorrono, cadono le une sulle altre, tutte dure e definitive, messe in fuga dall’orrore dell’assenza. La prosa di Michon è, come dice lui stesso, un arco teso a centrare un bersaglio, e dall’altro lato una fuga dall’ecatombe del silenzio e della pagina bianca, dall’annichilimento. Per centrare il suo bersaglio, l’essenza delle cose, non si vergogna di tirare in ballo l’infinito, la luce, la Parola, gli assoluti con la lettera maiuscola. Lo fa con una tessitura lirica preziosa e allo stesso tempo tagliente, con uno stile che si adegua perfettamente all’esigenza dell’altezza e all’inamovibilità dell’assoluto.
Incisività e spessore. Le parole di Michon danno vita a un rilievo sulla pagina che per addizione di effetti (fonici, lirici, di immagini), per condensazione, provvedono al proprio opposto: farsi materia. Grumi di materia si rapprendono attorno ai significanti isolati, a volte anche visivamente («il sangue sprizzò attraverso le parole»). L’attenzione alle cose, ostinate e dure, si traduce, soprattutto nella prima parte del libro, in quadri dai colori decisi, in cui i contorni tagliati e neri dei personaggi si stagliano sulla materia vibrante della pagina e della percezione di Michon, come un quadro impressionista, ispessito dalla condensazione della materia pittorica sulla tela, ricreata nella pagina attraverso un lessico concreto che spesso abbraccia il dettaglio sublimato nella mitologia.
L’impatto della realtà e la sua sfuggevolezza, la limpidezza del mondo percepito e la sua inesprimibilità aprono alla tragedia di uno scrittore dalla gola mozzata e dalla mano sclerotica, che dopo un lungo periodo di gestazione riemerge dal silenzio sbigottito o dallo stupido lirismo, per braccare, frase dopo frase, l’idea, l’immagine, e non il fatto, sfuggite al linguaggio. Fondamentalmente è un impressionista anche per modalità e tipo di trascrizione della realtà. Così delle sue frasi ricordiamo il tacco duro che sbatte sul cemento, il sole innegabile che irradia una stanza, le pose statuarie, il pomeriggio che «indugia nell’occhio dorato delle galline».