Pochi giorni fa Andrea Coccia su Linkiesta ha dedicato un lungo ed interessante articolo al fenomeno del picking. Partendo dall’analisi di come il mestiere del giornalista si sia evoluto nell’ultimo decennio da reporter a content curator, ossia da generatore a semplice aggregatore/traduttore/riciclatore di notizie, Coccia arriva ad analizzare e definire la modalità che ha permesso l’attuazione di questo processo: “si sceglie una fonte, si prende un contenuto e lo si “ruba”, nel senso più nobile del gesto”. Picking, appunto.
Questo meccanismo di continua citazione e rielaborazione si basa, a mio parere, su uno degli elementi fondanti del web: l’elevazione della nicchia a canone vitruviano di proporzione. Decine di migliaia di microblog sono nati con un semplice, unico scopo: riproporre per il loro microcosmo quelle notizie che non meriterebbero di scomparire nell’oceano dei Big Data, ma che, in qualche modo, lo faranno nel giro di qualche ora, forse perché i telegiornali non avranno tempo di trattarle nell’edizione delle 20 o forse per una dimenticanza dello stagista addetto all’aggiornamento di quei tre siti che consultiamo ossessivamente ogni giorno, simulacri della nostra illusione di “pluralità d’informazione” 2.0. Oppure, non potrebbe essere che la nostra indifferenza sia dovuta al semplice fatto che quelle notizie, essendo in un’altra lingua, erano destinate fin dall’inizio a non attraversare il nostro schermo?
Ecco, la lingua, un elemento che tendiamo a dimenticare ma che rappresenta tuttora il più grande freno al World Wide Web. Se esiste un segmento decisivo da riempire di notizie, e definirlo nicchia appare quantomeno riduttivo, almeno in Italia, quello era e resta sempre lo stesso: i 52 milioni di italiani, l’85% della popolazione, che hanno dichiarato di non conoscere la lingua inglese. Una fetta di mercato enorme, tra l’altro ben differenziata: anziani, quarantenni, (troppi) studenti, di qualunque estrazione sociale e impiego, alla disperata ricerca di un palliativo per attenuare quel dolore che la forza globalizzante del web alimenta continuamente, sbattendo in faccia all’utente l’enorme distanza tra le infinite (e anglofone) opportunità fornitegli e le sue limitate possibilità di goderne.
Riviste cartacee come Internazionale e aggregatori online come Il Post (seppur dotati di numerosi blog d’opinione) servono a soddisfare questa domanda di notizie già tradotte e in qualche modo predigerite, con la testata a porsi come garante della qualità della fonte e filtratore dei contenuti. Paradossalmente, nell’era della massima apertura e della sovrabbondanza, ciò che si continua a cercare sono poche notizie, scritte nella nostra lingua, proposte da persone con il nostro stesso punto di vista: in una parola, si ha bisogno di un feed, di qualcosa che ci alimenti.
Cosa cambia, quindi, rispetto ai tempi dei giornali di partito e della comunicazione unidirezionale? Di certo, le modalità e la forma con cui i contenuti ci vengono forniti (le newsletter, il dilagare del politically correct fin nei meandri del design dei siti web), ma non sono sicuro del fatto che l’essenza del giornalismo di massa, nonché la domanda del lettore medio siano poi così diverse dal lontano 1994, anno in cui Internet è comparso nelle nostre vite (il cui anniversario è stato commemorato pochi giorni fa da centinaia di migliaia di articoli identici tra loro).
Ma torniamo al picking e ai suoi potenziali rischi, che secondo Coccia sono due: l’omologazione dei contenuti e il conseguente crollo del già fragile ecosistema del giornalismo online. Come può sostenersi un sistema in cui la redditività del vostro sito dipende esclusivamente dal numero di visualizzazioni generate, se i vostri competitors offrono lo stesso identico articolo? Questa situazione non è poi così lontana dal diventare realtà, come testimonia l’efficace esempio riportato dall’autore, che riporta come tre testate abbiano raccontato nel giro di tre giorni la medesima notizia con riferimenti e citazioni pressoché identici.
Quante e quali le soluzioni per le testate online a quella che sembrerebbe rientrare a pieno titolo nella categoria “spirale autodistruttiva”? Apparentemente, due. La prima: politicizzare, ricontestualizzare, perché no, estremizzare le notizie riportate, in modo da renderle appetibili e “uniche”. Come farlo? È semplice: trasformandosi da aggregatori a creatori. Non parlo di strumentalizzare la notizia, ma semplicemente di fornire il proprio, discutibile, punto di vista nei confronti di quello che è accaduto. Ovviamente, tutto questo ha un costo (giornalisti, editorialisti, consulenti) ed eccoci quindi alla seconda soluzione: il paywall. Convincere il lettore a pagare una piccola somma per avere notizie migliori, più complete e differenziate. Certo, non sarà facile come per il New York Times, ma casi come quello di Nate Silver e del suo FiveThirtyEight, o Andrew Sullivan e The Dish testimoniano come anche la notorietà di un blog, limitata per definizione, possa essere un importante veicolo di fidelizzazione, fondamentale per ottenere un qualche contributo economico dall’utente.
Beh, ditemi voi se questa storiella non ricorda tanto quella della nascita dei quotidiani “moderni”, quelli a grande tiratura, che so, il Corriere, che per offrire una notizia migliore di quelle gratuite ma frammentarie dell’amico all’osteria chiesero in pegno una piccola somma di denaro, e che, per differenziarsi dai loro omologhi locali, iniziarono a “creare” le loro notizie, fornendosi di una propria linea editoriale ed emancipandosi dalla semplice analisi dei fatti, con i rischi e le conseguenze che tutti noi conosciamo.
Basta guardare all’evoluzione dei quotidiani per capire che il picking non rappresenta una novità nel mondo del giornalismo, ma una costante che riappare ciclicamente nella storia dell’editoria, cartacea o digitale che sia. Le sezioni culturali e di società dei quotidiani sono ormai del tutto uniformi, piegate alle esigenze della promozione, le interviste, anche ai più alti intellettuali del nostro tempo, non sono altro che pretesti per il lancio di un libro o di una riedizione, per non parlare delle ricerche scientifico-statistiche, riportate in maniera pressoché identica da tutte le maggiori testate, e degli interventi dei corrispondenti stranieri, il vero grande esempio di picking (o, più volgarmente, rimescolamento della rassegna stampa estera).
Cosa sono i quotidiani oggi, quindi, se non indifferenziati aggregatori di contenuti, in cui poco altro vale quanto il numero di copie vendute? A fare la differenza restano le opinioni, gli editoriali, sempre più categorici e sopra le righe, urlati, quasi come se fossero l’ultima possibilità di farsi notare prima di affondare nelle sabbie mobili dell’anonimato. Se l’informazione online vuole scampare al picking e alle sue conseguenze, non può far altro che rileggere la storia di quella cartacea, evitandone gli errori e non rinunciando ai propri vantaggi (il low cost), alla propria diversità e alla propria indipendenza.
P.S. Non posso non notare l’ironia british insita nel fatto che questo pezzo sul picking potrebbe venire accusato di essere esso stesso un inutile esempio di picking dall’articolo di Andrea Coccia su Linkiesta, nonché di alimentare potenzialmente dell’altro picking (ma su questo avrei dei dubbi). In ogni caso, mi dichiaro innocente.
Cover Photo: John Abell/Wired.com