Goodbye, ol’ pal: Philip Roth e l’America che è sparita insieme a lui

Forse la morte di Philip Roth, più di tutte le morti celebri che si sono susseguite negli ultimi anni, ci trasmette l’idea di un grosso momento di ricambio nel nostro orizzonte culturale. In realtà, già il suo silenzio prolungato – il suo ultimo libro, Nemesis, data 2010 – era stato visto da alcuni come la presa di coscienza di un autore che non si riconosce più nell’atteggiamento del mondo della cultura che lo circonda, piuttosto che come un passaggio di consegne generazionale o il prodotto del desiderio di godersi un giusto riposo. A questa interpretazione ha contribuito American Pastoral (1997), probabilmente il libro che è associato a Roth più di frequente poiché, oltre ad aver vinto il Pulitzer nel 1998, è annoverato tra i grandi romanzi americani apparsi alla fine degli anni Novanta che hanno marcato il passaggio dal vecchio al nuovo millennio, anticipando paranoie, tensioni e disagi che l’attacco terroristico dell’11 settembre avrebbe portato in superficie.

In questo romanzo, Nathan Zuckerman, alter-ego di Roth già protagonista di un ciclo di cinque libri tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta – Lo scrittore fantasma (1979); Zuckerman Scatenato (1981); La lezione di anatomia (1983); L’orgia di Praga (1985) e La controvita (1986) –, dopo dieci anni di silenzio torna per raccontarci, piuttosto che le proprie vicende, la prima di tre storie esemplari di ascesa e caduta di grandi ebrei d’America. Si tratta della vicenda dello “svedese” Seymour Levov, erede di un’impresa di pelletterie cresciuta tramandandosi di padre in figlio durante gli anni Cinquanta, dopo essere stato in gioventù il campione del quartiere ebraico di Weequahic di Newark, New Jersey, in cui Roth ha trascorso infanzia e adolescenza. Eccelso negli studi quanto nello sport e incarnazione del più riuscito modello di vita americano, Levov assiste al crollo della propria famiglia e della sua reputazione durante gli anni Sessanta e Settanta a seguito delle azioni di sua figlia Merry, che si avvicina alle fazioni più estremiste dei movimenti e, come segno di protesta contro la guerra in Vietnam, fa saltare in aria l’ufficio postale del quartiere, per poi fuggire di casa facendo perdere le sue tracce in modo definitivo.

Raccontando la storia di Levov, Zuckerman in realtà rielabora le proprie difficoltà a capire la generazione dei movimenti e le trasformazioni a cui ha dato vita, così come ha fatto con raccontando quella del suo insegnante, Murrey Ringold, e di suo fratello Ira per riproporre le perplessità vissute da ragazzino, negli anni Cinquanta, di fronte alla fobia per i comunisti e all’ideologia americana della Guerra Fredda, in Ho sposato un comunista (1998); quindi, attraverso le vicende di un terzo personaggio, Coleman Silk, accademico ritiratosi a vita privata e solitaria nei monti Bekshires dopo essere stato vittima di una caccia alle streghe universitaria e prontamente ostracizzato dall’intero sistema in base a un’accusa di razzismo, ha portato all’attenzione l’insensatezza perbenista di un’America che ha provocato la caduta di un presidente, Bill Clinton, per il suo coinvolgimento in uno scandalo sessuale. In modi diversi, i tre romanzi messi insieme sotto l’etichetta di “trilogia americana” partono dal classico che più di tutti aveva indagato la mitologia dell’self-made-man alla base del sogno americano, Il grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald, e lo rileggono nella cornice degli Stati Uniti contemporanei. Un’America rispetto alla quale Roth già aveva dichiarato una distanza e un superamento nel momento in cui si è congedato dal suo più longevo alter-ego, Nathan Zuckerman, definito dallo stesso autore come “alter-brain”, più che un eteronimo pessoiano, in Il fantasma esce di scena (2007), ultimo dei cosiddetti “Zuckerman Books”, denominazione del ciclo completo dei nove volumi citati, che compongono un affresco dell’America vissuta dall’autore e rivissuta nei suoi diversi momenti da questa doppia identità finzionale.

Ma a proposito di generazioni e di conflitti generazionali, Roth già vi si era dedicato vestendo i panni dell’Edipo ebreo-americano in Lamento di Portnoy, nel 1969, in piena contestazione, un romanzo che viene ripreso più volte nel meccanismo metanarrativo costruito dai nove “Zuckerman Books” attraverso i riferimenti al romanzo Carnovsky che ne rappresenta l’omologo nella carriera di Zuckerman, rivelando quindi un valore fondativo nell’universo letterario di Roth e di Zuckerman. Si tratta del libro con cui Roth si è inimicato a lungo la comunità ebraico-americana per il suo valore trasgressivo e di ribellione ai costumi e ai ruoli tradizionali tramandati all’interno delle famiglie ebraiche degli Stati Uniti, riabilitando la sua figura nella comunità solo quando lo scrittore è stato consacrato tra le menti più brillanti della letteratura nazionale della seconda metà del Novecento dai numerosi premi vinti durante la lunghissima carriera, e riconosciuto come il più grande scrittore ebraico vivente da Israele.

Avere notizia della morte di Roth nel cinquantennale che più che celebrare i Sixties e il maggio francese, ne ha decretato la sepoltura definitiva, acquisisce una ulteriore sfumatura, se consideriamo gli anni dieci del duemila che, approssimandosi allo scatto dei venti, ci consegnano giovani all’apparenza indecisi, incomprensibili, frustrati dal mondo del lavoro, impossibilitati a emanciparsi, irretiti dalle nuove tecnologie, condannati a non poter crescere. Se n’è parlato qualche settimana fa, inconsapevoli di quanto sarebbe successo a Roth, a proposito della ricognizione degli scrittori italiani “adulti” che abbiamo incontrato al Salone del Libro di Torino. Ma c’è qualcosa in più, in Roth, che una semplice incomprensione generazionale, piuttosto una vera e propria affermazione della possibilità di restare immaturi – un’“arte dell’immaturità”, come ha scritto Ross Posnock, uno dei maggiori critici americani che si è confrontato con l’autore – che anticipa di oltre cinquant’anni quella attribuita ai Millennials, visto che all’anagrafe c’è scritto che Mr. Roth nasce nel 1933. Si tratta della percezione di un disagio già riconosciuto a partire dagli anni Sessanta da Alex Portnoy e poi portato avanti da Nathan Zuckerman e dagli altri celebri alter-ego a cui siamo stati introdotti nei restanti volumi degli oltre trenta pubblicati dall’autore, tra romanzi, novelle, raccolte di racconti, nonché di saggi e di interviste: Peter Tarnopol, il Professore David Kapesh, alter-ego accademico, nonché diversi Philip Roth, nome per esempio del protagonista di Complotto contro l’America (2004), in cui per la prima volta si menziona la possibilità che questi potesse smettere di scrivere.

C’è inoltre qualche altro fattore da aggiungere se consideriamo, come fa Charles McGrath sul New York Times nell’articolo che ne annuncia per primo la dipartita, costui l’ultimo dei “grandi maschi bianchi”, in un triumvirato ormai decaduto insieme a Saul Bellow e John Updike, di cui era l’ultimo pilastro ancora in vita. Nei suoi cinquant’anni di carriera – avviata da un libro che ha vinto immediatamente il National Prize, Goodbye Columbus, nel 1959 – Roth si è  distinto per essere lo scrittore criticamente più significativo, ma anche il più controverso, come scrive Timoty Parrish inaugurando il Cambridge Companion to Philip Roth, nella serie dedicata ai “grandi” della letteratura anglofona: ha rappresentato la libertà di essere scorretti, scortesi, brutali, sconci, genuinamente disgustosi, di contro a qualsiasi regola del bon-ton quanto del politically correct statunitense, nonché di essere incoerenti e scivolosi, di respingere ogni affiliazione definita, di potersi schierare contemporaneamente con un’idea e con il suo contrario, in questo riproducendo la grande maestria nell’arte della finzione che è propria dei grandi classici americani, in una serie inaugurata da Herman Melville e di cui costituisce l’ultimo tassello dietro Henry James, Fitzgerald, William Faulkner.

Celebrato da Times Magazine come miglior scrittore americano del periodo, nel 2011, a seguito alla dichiarazione di aver posto termine alla sua carriera di scrittore, inserito nel Canone occidentale di Harold Bloom ancora in vita, così come beneficiario del privilegio, insieme a soli due illustri precedenti, della pubblicazione dell’opera omnia in vita nella collana dei “Library of America”, vincitore del Pulitzer e di numerosi altri premi, con l’unica esclusione del Nobel tanto desiderato e sempre negato, concesso addirittura a Bob Dylan, che per la prima volta ha introdotto la possibilità che il prestigioso premio possa essere attribuito a un geniale menestrello che non ha mai abbandonato l’atteggiamento di chi è cresciuto tra i poeti beat, che ha sempre rifiutato ogni canonizzazione e di cui probabilmente Roth rappresenta l’estremo opposto da qualsiasi punto di vista. Forse il più grande risultato di Roth è stato quello di ascendere al canone senza tradire la sua impertinenza, la sua identità di ribelle e contestatore del sistema, nonché, francamente, la sua grande qualità di paraculo, in letteratura come in vita, nei romanzi come nelle interviste concesse.

Attaccato da Israele e poi celebrato come uno dei più grandi scrittori ebraici, per quanto abbia invece sempre rivendicato la sua identità di americano, Roth ha rappresentato la qualità di uno scrittore di cui si potesse dire tutto e contemporaneamente il suo opposto, suscitando reazioni di scandalo, e in questo sta la sua più squisita e straordinaria qualità: l’essere celebrato come più grande scrittore americano pur violando tutte le regole di vita e di condotta imposte dall’ideologia statunitense. Ed è per questo che nel nostro nuovo millennio, con le sue ipocrisie, il ritorno al non detto, l’opposizione del massimo della libertà sessuale contrapposta al ritorno del più grande bigottismo, della massima possibilità di muoversi sul globo contrapposta alla volontà di rendere le frontiere sempre più inaccessibili, Roth non ha posto.

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