Erano necessari 20 anni e 8 film (o meglio 8 irripetibili pezzi di Storia del Cinema, così anomali che non si somigliano neanche tra loro) perché la giuria degli Academy Awards concedesse il giusto spazio a Paul Thomas Anderson: tra i pochi autori al mondo ad aver scelto la strada dell’impavido sperimentatore, capace con ogni lungometraggio di riscrivere le regole del Cinema stesso, eppure restare saldamente ancorato all’arte del racconto. Se esiste un cineasta che sembra aver colto, interpretato e assimilato la lezione di Stanley Kubrick, quell’uomo è Paul Thomas Anderson: e quella lezione afferma che la sperimentazione non è nulla, se non utilizzata in funzione di una singola, particolare storia, secondo l’aspirazione (o forse il sogno) di un equilibrio perfetto tra forma e contenuto. Regole e strutture si rinnovano in ogni film come se fossero completamente nuove: in questo modo, se pure l’immaginario di PTA resta visibile come un sottile filo rosso, ogni capitolo della sua filmografia si configura come una nuova sfida.
Ed eccoci a Phantom Thread – Il filo nascosto: un film letteralmente cucito su Daniel Day-Lewis, perché regali un’ultima indimenticabile interpretazione prima dell’addio alle scene. Candidato a 6 Premi Oscar (Miglior Film, Miglio Regista, Miglior Attore Protagonista; Lesley Manville per la Miglior Attrice Non Protagonista, Mark Bridges per i Migliori Costumi, Jonny Greenwood dei Radiohead per la Miglior Colonna Sonora) da Giovedì 22 Febbraio Il filo nascosto è finalmente in sala, ed è esattamente l’opera straniante, diversa e stupefacente che stavamo aspettando.
Nella Londra degli anni ’50, quando la rivoluzione del prêt-à-porter è ancora lontana e le confezioni restano appannaggio dei poveri, Daniel Day-Lewis è Reynolds Woodcock: stilista amato da nobildonne, principesse e figure di spicco dell’alta società. La House of Woodcock è una creatura di Reynolds e sua sorella Cyril (Lesley Manville), l’unica donna che sembra saper comprendere e interpretare le sue molte ossessioni. Dietro l’apparenza di un’eleganza innata, Woodcock è un uomo profondamente tormentato. Il filo nascosto è quello contenuto dai suoi stessi abiti: piccoli, strani messaggi ricamati a mano, racchiusi tra le pieghe e gli orli del tessuto, all’insaputa perfino di chi li indossa.
Woodcock non è giovane, ma è ancora un abile seduttore. Neanche il tempo di congedare la sua ultima convivente, che in un ridente diner di campagna incontra Alma (Vicky Krieps): cameriera dal sorriso gentile, pronta a diventare una nuova modella e musa. Quello che poteva essere l’ennesima liaison fondata sulla sudditanza psicologica e intellettuale, grazie ad Alma si trasforma invece in un complesso rapporto di interdipendenza: la timida e dolce ragazza rivelerà una mente decisamente oscura, ma a suo modo creativa, e saprà escogitare le soluzioni più estreme, finché Woodcock non saprà più immaginare la vita senza di lei.
Phantom Thread – Il filo nascosto è un’anomala storia d’amore e ossessioni, costruita come una sonata, dove immagini musica e sequenze sembrano succedersi senza soluzione di continuità. La macchina da presa si muove con grazia, raccontando la prigione dorata di Casa Woodcock, tra la perfezione delle apparenze e le crisi nascoste nelle stanze chiuse. La rappresentazione iperrealista della vita di Woodcock, Alma e Cyril è amplificata dalla scelta di girare il film quasi solo in interni, mentre le sarte e l’inquietudine lavorano senza sosta. Come sempre nel cinema di P.T. Anderson, la colonna sonora ha il ruolo di un autentico elemento narrativo: in questo caso, il pianoforte di Jonny Greenwood è la tessitura ipnotica che fa scomparire il montaggio, la divisione di scene e sequenze, e la stessa percezione del tempo.
Dopo The Master (2012) e Inherent Vice (Vizio di forma, 2014), quella de Il Filo nascosto è la terza colonna sonora che il chitarrista dei Radiohead realizza per Paul Thomas Anderson. Dopo Il Petroliere (There will be blood, 2007) è anche il secondo film che vede Daniel Day-Lewis come protagonista: entrambi, non sono dettagli trascurabili. Figlio di un noto personaggio delle tv locali, Ernie Anderson (meglio noto come Ghoulardi, una sorta di Zio Tibia, presentatore specializzato per Notti Horror), P.T. Anderson cresce nella San Fernando Valley: ricco sobborgo di Los Angeles, che alla fine degli anni ’70 diventa il capoluogo della nascente industria pornografica. A soli 12 anni Paul Thomas ha già girato il suo primo cortometraggio, possiede una Betamax ed ha qualche problema con il gioco d’azzardo… Insieme alla Valley e i suoi strani abitanti, sono gli elementi destinati a comporre il suo primo grande film corale: Boogie Nights (1997).
Nel 2000 il suo terzo film, Magnolia, vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. A soli trent’anni, per la critica P.T. Anderson è già il nuovo Robert Altman. Nella realtà, il ragazzo prodigio ha avvicinato l’anziano autore di Nashville e America Oggi: la loro amicizia accompagnerà il maestro negli ultimi difficili mesi della sua vita. Da notare che Altman non era neanche un tipo affabile: molto più di un allievo, un erede o un epigone, quello che ha visto in Paul Thomas Anderson è un cineasta dal talento naturale, capace di inserirsi nella tradizione del racconto corale e del multilevel drama come una voce unica e personale. La sceneggiatura di Magnolia è frutto del complesso mash-up di 10 personaggi e 10 storie, per un dramma che non esclude un’improvvisa incursione nel Musical e una provvidenziale pioggia di rane. P.T. Anderson ha l’ironia necessaria per scherzare sulla possibile fine della sua carriera: un autore che a 30 anni ha già firmato il suo capolavoro, infatti, potrebbe non sopravvivere all’inevitabile crisi creativa.
La risposta è Punch-drunk Love (2002): il film che divide nettamente in 2 la carriera del cineasta (e forse è il vero capolavoro di PTA, nonché uno dei più incredibili tesori nascosti della Storia del Cinema intera). Il titolo sarà tradotto in italiano come Ubriaco d’amore: una semplificazione vagamente fuorviante, già che la traduzione letterale è Suonato d’amore, nello stesso modo in cui si dice “suonato” di un boxeur dopo una lunga carriera di pugni. L’intreccio di differenti storie lascia spazio a un unico tema: il miracolo dell’amore, che si presenta inaspettato come un armonium sul ciglio dell’autostrada. La struttura è apertamente al limite tra narrativa e video installazione: la trama, infatti, ospita immagini e “transizioni” realizzate da Jeremy Blake (video artist che ha collaborato anche all’album Sea change di Beck). Anomalo come Adam Sandler, volto del cinema più mainstream prestato all’avanguardia, Punch-drunk Llove è l’ultimo film di P.T. Anderson dagli elementi fortemente autobiografici.
Da qui in poi, inizia la seconda fase del suo cinema, che sarà ancora dedicato ai weirdos, i diversi, i drop-out, ma abbandonerà Los Angeles e il tempo presente, per dedicarsi a una galleria di anti-eroi solitari sparsi nel tempo. Primo protagonista del new deal è proprio Daniel Day-Lewis con Il petroliere (2007): è il primo vero cattivo del cinema di PTA, la prima storia che non presenta neanche l’ombra della speranza e della redenzione. Con The Master e l’arrivo di Jonny Greenwood, il quadro è completo: dopo gli anni del sodalizio con Jon Brion e Aimee Mann, i loop, le atmosfere sognanti e i suoni distorti delle prime colonne sonore cedono il passo a un approccio più concreto: nel caso di Phantom Thread – Il Filo nascosto, la colonna sonora è l’anima gotica di una storia d’amore ispirata a Rebecca,la prima moglie (1940) del maestro del brivido Alfred Hitchcock.
Non sappiamo se Paul Thomas Anderson e Jonny Greenwood abbiano davvero qualche chance di vincere un Oscar nell’anno di Guillermo Del Toro e The Shape of Water (La forma dell’acqua). Certo, con la storia di Alma e Reynolds Woodcock hanno firmato un nuovo capolavoro sui misteri dell’animo umano.