È sempre un piacere perdersi nelle fotografie di Elliott Erwitt

È impossibile non seguire lo sguardo di quel bambino. Leggero come una baguette, seduto a cavalcioni dietro al sellino di una bicicletta, tradisce una severità nei suoi occhi tale che persuade a stargli alle calcagna. E in un passo ecco che quella leggerezza, varcata la soglia, supera le campagne della Provenza e assume i contorni stabili degli ultimi sessant’anni. Di storia, di umanità e di sguardi di coloro che ne hanno scandito gli umori: le Personae.

È il titolo, ma più la mission, della retrospettiva in scena nelle camaleontiche sale della Reggia della Venaria Reale che in oltre 170 scatti racconta Elio Romano Erwitz, per tutti Elliott Erwitt, nato regista ma membro dal 1953 della storica agenzia Magnum, in ognuno dei suoi diversi filoni e soggetti. Dai bambini a cui deve molto per la loro espressività – non è un caso che lo scatto del bimbo che si punta la pistola alla tempia sia tra i suoi preferiti – alle personalità famose, dalla moda ai cani, dalle pubblicità ai lavori intimi. In un solo percorso espositivo curato da Biba Giacchetti, con il progetto grafico di Fabrizio Confalonieri, organizzato da Civita Mostre con il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, in collaborazione con Sudest57.

Un percorso non di foto, stampe o immagini bensì di paradossi, contrasti e ironia. Quelle del “fotografo della commedia umana” che, per parlare di contraddizioni, lo è diventato dopo la crudele epurazione delle leggi razziali. «Grazie a Benito Mussolini sono americano. Ho vissuto in Italia fino a 10 anni, ma nel 1938 il fascismo ci costringe a fuggire». E che ha trascorso una vita a rincorrere dell’umanità ogni dettaglio e ad amplificare quei contrasti celati dalla maschera del quotidiano. Ciò sfruttando la forza antitetica del bianco e nero e solo in pochi casi inediti, o almeno lo erano prima di Venaria, affidandosi ai colori. Per lo più per i lavori editoriali e pubblicitari. «Per i miei scatti personali non uso il colore quello lo riservo al lavoro. Ho già una vita abbastanza complicata, quindi mi limito al bianco e nero e mi va bene così. Il bianco e nero è il compendio che permette di arrivare all’essenziale, ma è molto più difficile azzeccarlo. Il colore, invece, è più adatto all’informazione». 


Con le tonalità non cambia il suo sguardo che resta sempre ironico e fisso sull’obiettivo: cogliere la nota stonata che rende tutto il resto armonizzato. Quell’attimo di straordinarietà che serve solo a capire l’ordinario, come un’increspatura in un mare calmo. Così, anche nella stessa stanza, quello stesso sguardo che si inasprisce per raccontare brutalmente come un lavandino possa recidere l’umanità in “White” e “Colored”; si ingentilisce nei ritratti di un’ammiccante Marilyn Monroe – «era praticamente impossibile farle una brutta fotografia» – Che Guevara, Sophia Loren, ma anche presidenti americani o campioni come Arnold Schwarzenegger. E riesce, senza ridicolizzarsi, a rimpicciolirsi a 20 centimetri da terra per immortalare i cani. Quei cani di ogni razza e statura, di ogni espressione e similarità che appaiono in molte delle foto di Erwitt – la prima nel 1946 – non per la loro dimensione affettiva ma per l’effetto di specchiarsi nei loro padroni e, anche, nelle loro scarpe per pubblicizzarle. Come la foto del Bulldog newyorchese seduto in grembo all’uomo del quale oscura il volto con il muso, quasi simbolo dell’americano pronto a tutto.

Se lo sguardo non cambia, infatti, muta l’interpretazione che lascia all’osservatore. Lui si limitare a dare lo spunto. «A volte ti sembra che stia per accadere qualcosa e allora aspetti può andare bene oppure no qualcosa può effettivamente succedere è questa la cosa meravigliosa delle foto». Come California Kiss che ritrae nel 1955 una coppia che si bacia dentro un’automobile e in cui l’immagine viene riflessa dallo specchietto. Scatto che, a dispetto della superficialità che gli attribuiva, ha segnato la storia. Ma se quel qualcosa non si succede, Erwitt aiuta l’attimo suonando la trombetta da bicicletta fissata sul bastone da passeggio per sciogliere le pose sostenute davanti all’obiettivo – «ha come l’effetto di infrangere le barriere» – o abbaia. O fa danzare un ballerino davanti alla Torre Eiffel accanto a due innamorati che si baciano all’ombra dei loro ombrelli rotti. Fa arrivare 100 cavalli veri accanto a un’auto per comunicarne la potenza. Oppure, con la macchina fotografica sempre a portata di mano, rincorre il treno che viaggia accanto alla macchina, come una gara per sconfiggere il tempo. «Le idee, per quanto siano straordinariamente interessanti nella conversazione e nella seduzione, hanno poco a che vedere con la fotografia. La fotografia è il momento, la sintesi di una situazione, l’istante in cui tutto combacia. È l’ideale fuggevole».


Ma è nella seconda parte della mostra nel suo alter ego André S. Solidor (A.S.S. per gli intuitivi) che l’assurdo assume la forma della realtà. Nel racconto del personaggio eccentrico, adiplomatico, che inneggia al photoshop e alla fotografia fake. Al digitale e alla nudità gridata. Alla parodia e al paradosso. Che si racconta in un video in cui c’è tutto quello che Erwitt non è. E non è mai stato, a cui però, nel pieno della linearità dei paradossi, ha voluto dare spazio e parola. O meglio, ha voluto concedere uno sguardo. Comico e distopico. Lasciando l’ennesimo finale aperto del suo racconto.

La mostra è visitabile fino al 24 marzo 2019 presso la Reggia di Venaria Reale, vicino Torino.

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