Perché un live dei Massimo Volume è sempre un piccolo incanto

Benevento è una città piccola, con un centro vivo, pedonale, che esibisce in piazza l’antica storia del Sannio, regione che si estendeva da costa a costa, dall’Adriatico al Tirreno, come la vecchia America kerouackiana in cui si narra un coast to coast più lungo in chilometri, ma forse meno contrastato. Emidio Clementi viene da quella costa adriatica che è bassa e ricca di sabbia: secondo lui l’Italia continua ad essere divisa nella maniera più banale, Nord e Sud, quando sarebbe forse il caso di rinnovare il linguaggio secondo il contrasto che oppone piuttosto Est ed Ovest. Due linee di confine, due filosofie. Napoli cercai un hotel poi andai a tagliarmi i capelli. Chiesi: ‘Qual’è il quartiere delle puttane?’  – questo è il testo di Senza un posto dove dormire, da Stanze, album del 1993 dei Massimo Volume. Napoli, la costa occidentale, a pochi chilometri dalla Benevento che ospita sul palco all’aperto della Rocca dei Rettori (per la rassegna Zona Franca) la storica band della Bologna indipendente, il cui rumore sordo condensa tutta la fatica di vivere sulla costa adriatica. 

A un concerto dei Massimo Volume tutto è una messa in scena di rapimento e incanto: i suoni della batteria di Vittoria Burattini si mescolano alle chitarre di Egle Sommacal e Stefano Pilia, e poi s’impone il basso maestoso di Clementi, che grida, urla, decanta, e parla, e sottovoce morde, percuotendo il pubblico a parole. Sassi, parole, saette, e inferno. Rimbaud e Carnevali. Poesia e vino fresco. Puttane cantate, e muse; ragazzine disperse che partono per Berlino; sognatori e distruttori di sogni; realtà viva dentro la carne, morte e vita; dei perduti e fedi riconquistate. Il piccolo miracolo che si compie a ogni live dei Massimo Volume è quello della poesia che ti tiene fisso ad ascoltarla, è quello della musica che ti penetra violenta. Sono bravi, sanno suonare, lo dimostrano a ogni data in maniera forte. ”Era il 1991, al tempo provavamo in cantina con un’attrezzatura infame, avevamo solo due vecchi amplificatori, così per poter sentire il suono dicevamo in continuazione: Massimo volume, alza al massimo volume.” 

Gli ultimi due dischi sono i protagonisti del live, ma c’è tempo anche per ripescare nella storia di una band che ha inevitabilmente fatto la storia del rock italiano. Quello sotterraneo che si è anche imposto. Quello che canta nel nome di Vic Chesnutt, ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro. Quello che intona i suoi bei versi in Litio, potente come una scarica elettrica in endovena. Quello del nostro ormai immortale primo dio, che ha fatto tornare in vita lo spirito di un poeta che altrimenti avremmo così blandamente dimenticato. I dimenticati della terra, le possibilità perdute: di questo e altro cantano i Massimo Volume. I diseredati, quelli andati a male, quelli che vanno a puttane, i drogati. E i barbari che arrivano a piegare i nostri sogni alla loro pubblica rivoluzione in Aspettando i barbari.

Vince chi resiste alla nausea
chi perde meno
chi non ha da perdere

Non ha importanza se li avete già ascoltati, i Massimo Volume, sapranno sempre cullarti come un vecchio amico che cura il bambino a cui vuol bene. Sapranno sempre ricordarti che ”io non ti aspetto, io non ti cerco, ma non ti dimentico”. Sapranno evocare fuochi fatui, giornate delittuose, il passato rigettato in testa con una disperazione latente, e una felicità proibita, che però è così viva da toccare con mano. Questa è la musica. E se non hai mai sentito come s’incastrano i versi ”Oggi siamo partiti / Nessuno ci ha chiesto dove saremmo andati /Perchè quaggiù, quaggiù nessuno immagina chi siamo” dentro la carne viva di batteria, chitarra e basso, allora devi assolutamente rimediare.

 Fotografie a cura di Federica Rinaldi

Exit mobile version