Sono anni, questi, di grande fermento. La cosidetta quarta ondata, la chiamano.
Di cosa? Beh, del movimento femminista!
Va molto di moda oggi una letteratura giornalistica che fa del pinkwashing il suo strumento principe, allo scopo di vendere sostanzialmente come fem-friendly i prodotti di grosse aziende. Funziona benissimo.
C’è molto entusiasmo nel sentire storie di scienziate e professioniste che “ce l’hanno fatta”, oppure di persone diversamente abili piene di coraggio e forza di volontà. Non mancano le quote LGBTQ. A dire il vero, sono storie fantastiche.
Tuttavia queste storie, queste vite, per poter funzionare bisogna che producano valore, e per farlo, bisogna che qualcuno se ne appropri facendone una trappola per dati (come del resto funzionano oggi tutti i socials) da vendere poi a brand interessati a quel target di pubblico: giovani donne tra i 18 e i 35 anni, di classe e cultura medio-alta. Insomma il più classico dei dispositivi biopolitici.
Va molto forte anche il lib-fem: quel femminismo liberale a carattere aziendalista, che produce un’equazione tra l’autodeterminazione femminile e l’affermazione individuale di donne ricche, bianche e privilegiate: in Italia uno nome su tutte è quello di Chiara Ferragni. Oltreoceano si sprecano le top manager dalla deontologia lib-fem, da Ivanka Trump a Sophie Amoruso di Girlboss. Quest’ultima si è resa protagonista di un’indovinatissima operazione di fideiussione narrativa, attraverso un libro bestseller e la serie Netflix ispirata alla sua storia, riuscendo a sfangare il fallimento della sua azienda, e mettendo così in sordina le voci non proprio lusinghiere sul trattamento delle sue dipendenti.
Qual è il punto?
Il punto è che non ci serve una Girlboss. Non ci serve una donna “con le palle”. Inoltre, duole dirlo alla Gruber nazionale (che si ama sempre) se le donne governassero le principali potenze mondiali, non ci sarebbe affatto la pace sulla terra, in virtù di una pietas materna votata alla cura, e dalla moralità immacolata (hello Cristianesimo!). Il Potere è guerra, il Patriarcato è guerra, il Capitalismo è guerra. Sussumere questa ideologia della competizione e perpetrarla, fare dell’autodeterminazione femminile uno sfoggio esclusivo di potere economico, significa riprodurre il discorso dominante patriarcale e capitalista.
Il femminismo sperabilmente, dovrebbe occuparsi di guerriglia, di lotta continua e costante per migliorare le condizioni di vita di tutte le donne. Soprattutto di quelle che non ce la fanno. Dei problemi nel mondo del lavoro legati al genere, all’orientamento sessuale, alle difficoltà relative alla scelta di avere un figlio. E visto che ci siamo, anche meno lavoro, più tempo e reddito universale. Giusto per mettere i puntini, ben marcati, sulle i.
Bene, detto questo. Cosa succede quando Beyoncè non è abbastanza, evidentemente.
Succede, che ci serve Cardi B.
Classe ‘92, nata e cresciuta nel Bronx, di origini trinidadiane e dominicane, prima del successo del singolo Bodak Yellow nel 2017, e dell’album Invasion of Privacy nel 2018, per il quale vince il Grammy come miglior album rap, diventando la prima donna a vincere in questa categoria come artista solista, Cardi B fino a diciannove anni, ha lavorato in un supermercato, e poi come spogliarellista.
Celebre come Nicki Minaj, per le sue forme spaziali, e il twerking che ne viene con esse.
Ecco cosa ci dice Cardi B sul femminismo:
“People think that being a feminist is a b***h that, like, went to school. They wear skirts all the way to their motherf*****g ankles like a godd**n First Lady. That’s not being a feminist.”
Una sintesi piuttosto dura ed efficace, su cui fare qualche ragionamento.
Facciamo un passo indietro.
A Natale, che è anche, quasi, il mio compleanno, siccome sono stata una brava bambina, ho ricevuto in dono King Kong Theory di Virginie Despentes, una raccolta di piccoli saggi del 2007, che trattano di stupro, pornografia e prostituzione. La Despentes oggi è una romanziera francese piuttosto famosa, classe ‘69, giovinezza punk, uno stupro a 17 anni, e un periodo di prostituzione alle spalle. È stata la compagna di Beatriz Preciado, oggi Paul. B Preciado (dopo il cambio di sesso), filosofo spagnolo il cui lavoro si concentra sulla teoria queer, la sessualità e la biopolitica.
Despentes in King Kong Theory parla del suo stupro. E lo fa senza alcuna pietà, in modo assolutamente organico, e senza quell’insopportabile giudizio di pena che pende sulle vittime di stupro a partire da se stesse. Il risultato dell’analisi di questa esperienza violenta, riguarda il fatto che essa non sia un’eccezione alla norma, un evento straordinario e periferico. Come purtroppo ancora oggi viene presentato. Ma che, al contrario, sia il cuore stesso, il fondamento della nostra sessualità. Sia, in qualche modo, generativo. La colpa: la cifra stessa della condizione del femminile. Essere colpevoli del desiderio che si suscita.
Lo stupro, dice la Despendes, è un programma politico preciso: ossatura stessa del capitalismo, è la rappresentazione più cruda dell’esercizio del potere. Nomina un padrone e stabilisce le regole del gioco, in modo da consentire l’esercizio illimitato di una volontà e di un godimento brutale, violento, il cui scopo ultimo consiste nella distruzione della parola e dell’integrità del servo. A partire da questo si sviluppa la mistica della sessualità maschile, come se debba necessariamente avere una natura criminale, pericolosa, e che per questo debba essere disciplinata dal gruppo e dall’esercizio del controllo sulla sessualità femminile. E ancora, nella morale giudeo-cristiana è un continuo ripetere che sia meglio essere prese con la forza che essere prese come cagne.
Quando Despentes parla della sua esperienza come lavoratrice del sesso, ne parla come una tappa obbligata per la sua stessa ricostruzione, dopo lo stupro.
“Un’operazione di risarcimento, banconota dopo banconota, di quello che mi era stato strappato via con la violenza.”
Prostituirsi ha significato quindi riappropriarsi del proprio corpo e della sua capacità di produrre valore, questa volta, per se stessa. Una sorta di espropriazione proletaria, di sottrazione del proprio corpo al plusvalore di godimento della violenza subita.
Despentes fa le sue prime marchette nella Francia degli anni ‘90, in maniera del tutto indipendente, attraverso l’internet dell’epoca. In quel periodo lavora in un supermercato e scrive:
“Detestavo lavorare. Mi deprimeva tutta quella perdita di tempo, il poco guadagno e la facilità con cui lo spendevo. Guardavo le donne più vecchie di me, un’intera vita a sgobbare così, per guadagnare poco più del minimo sindacale e farsi fare i cazziatoni dal caporeparto a cinquant’anni perché vanno troppo spesso a pisciare. Mese dopo mese, capivo nello specifico che cosa significasse una vita di onesta lavoratrice.”
Al netto degli alti e bassi della sua esperienza, Despentes sottolinea una cosa importante: non c’è alcuna distinzione tra prostituzione e regolare lavoro stipendiato.
Quello che irrita e turba la morale non è tanto che una donna possa essere materialmente ed economicamente gratificata dal fatto di soddisfare il desiderio di un uomo. Quanto piuttosto che lo chieda esplicitamente. Come il lavoro di cura (domestico e l’educazione dei figli) deve essere gratuito, così la prestazione sessuale. È il contratto matrimoniale, la cellula familiare, l’istituzione di controllo normativa che disciplina il desiderio e l’economia capitalista. La dicotomia Madre/Puttana apre sul corpo delle donne una crepa tra due identità inconciliabili : Maria/MariaMaddalena.
Di qui la drammatizzazione del desiderio maschile che disprezza ciò che desidera, o prova eccitazione per ciò che lo fa vergognare. La deportazione fuori dalla mura domestiche e della città (la prostituzione si nasconde, o spinge in luoghi periferici) di un desiderio presentato come mostruoso, che deve fare paura, e mantenere una natura asociale.
Lo stesso vale per la pornografia e lo stigma gettato sulle attrici hard: il fatto che delle ragazze si siano prese la libertà di fare esattamente quello che si desidera vedere è per il desiderio maschile dominante, intollerabile. Per usare le parole di Despentes “dammi quello che voglio, te ne supplico, perché poi possa sputarti in faccia”.
Le ragazze che si cimentano nel commercio del sesso, che traggono un vantaggio economico dal proprio corpo devono essere punite pubblicamente. Bisogna che la donna che non proviene da una classe privilegiata, o che non possiede strumenti per la propria autodeterminazione, tenga bene a mente che la sua sola possibilità di ascesa sociale sia il matrimonio. È la lotta di classe, baby.
Quindi, ecco che la nostra fantastica Mrs.Cardi B, che ha lavorato in un supermercato, che ha fatto la spogliarellista, che ha persino drogato e derubato alcuni uomini in albergo per sopravvivere, ha tutto il diritto di eccitarci, di twerkare, di usare il suo corpo per farci dei soldi.
Curiosità: Cardi B. sosterrà anche la campagna presidenziale del senatore Bernie Sanders. In vista di una chiacchierata con Bernie in un salone per manicure a Detroit (!), la rapper ha chiesto ai suoi followers su Intagram di formulare delle domande da girare al candidato democratico alla presidenza.
Un femminismo allora, che si dica intersezionalista in chiave materialista e non identitaria, che spinga l’empowerment di tutte le minoranze, che combatta il white privilege anche nella pop culture, non può fare a meno del twerk.