*NDR – Qualche settimana fa abbiamo pubblicato un controverso articolo di Eugenio Maddalena dal titolo ”I motivi per i quali oggi si dà addosso a Saviano’‘. Ci è arrivata, a questo proposito, una lunga risposta a firma Fabio M. che apre a un dibattito sul tema, ed è tra le nostre migliori aspirazioni quella di animare discussioni proficue.
Premessa. Mi rendo conto che è un commento lunghissimo, spero non noioso come un articolo di Eugenio Scalfari. Ma colgo qui lo spazio per riportare dei concetti a me cari che nella necessaria ottica critica non potevano avere sviluppo più breve. Il passo: «Nella formazione culturale il pensiero mitico tende a prendere il posto principale rispetto alle forme del pensiero logico-critico» qui citato non a sproposito è fotografia della realtà in cui ci muoviamo; con difficoltà si potrebbe affermare il contrario. Eppure. Eppure va detto che se anche una citazione è fotografia puntuale di un fenomeno nulla impedisce di sovvertirne i termini lì dove si può riconoscere al pensiero logico critico il possesso della chiave per far rovinare le fondamenta del pensiero mitico. E bisogna stare inoltre molto attenti a scindere il pensiero mitico dalla più semplice e banale stupidità. L’accusa mossa da parte di tanti a Saviano di denigrare agli occhi di un pubblico, che è altrove rispetto alla realtà campana, la propria terra, è infondata e meschina. Infondata perché un certo tipo d’immagine della provincia napoletana/casertana non nasce certo con Roberto Saviano, anzi. Chiunque abbia un po’ di memoria o in alternativa abbia la passione e il tempo di approfondire certi temi sa che la considerazione negativa di Napoli e del sud è di gran lunga preesistente all’uscita di Gomorra. Per ragioni sia oggettive che soggettive.
La cronaca nera, giusto per fare un esempio, negli anni a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 raccontava di una Napoli ben peggiore di quella che racconta oggi. Basta andare in qualsiasi emeroteca e accorgersi dell’impressionante sequenza di morti ammazzati, in un tempo in cui nemmeno un lenzuolo bianco, in maniera pietosa, era frapposto tra la cruda realtà e la macchina fotografica che immortalava la tragedia. In ogni ambito della vita nazionale (e non solo) Napoli era “camorra”; parliamo degli anni di Cutolo e della Nuova Camorra Organizzata, anni in cui la camorra invase anche (come oggi del resto) i territori che si credevano puliti come quello sportivo (dalle frequentazioni coi Giuliano di Diego Armando Maradona, alle partite vendute, al totonero sistema ante litteram che avrebbe anticipato lo scandalo scommesse).
E l’immagine estera non era certo migliore. Proprio perché in virtù di quel pensiero mitico, che ad una sua forma più “terra terra” si traduce nella superficialità dei giudizi, si è sempre voluto come in una ferale sineddoche sostituire un intero territorio (il sud Italia nel suo complesso e talvolta il bel paese intero) con una sua parte, quella criminale. In questo hanno avuto peso non solo le infiltrazioni criminali italiane in Germania e negli Stati Uniti (per citare i casi emblematici) ma anche coloro i quali per cinema d’inchiesta e di denuncia (Francesco Rosi su tutti) o per cinema di narrazione (vedi la serie de Il Padrino di Coppola o Goodfellas di Martin Scorsese) hanno contribuito a diffondere un’immagine criminale dell’Italia e del suo sud. Ancora oggi da Venezia a Firenze fino alla Sicilia non c’è negozio di souvenir che non abbia il suo campionario dedicato a Don Vito Corleone, che è esattamente quello che il turista straniero si aspetta. Non solo perché è quello che gli è stato raccontato, ma perché è quello che colpevolmente vuole aspettarsi perché, di fondo, è più rassicurante, proprio in virtù di quel pensiero mitico, lasciarsi cullare dalla confortante falsa verità di uno stereotipo piuttosto che compiere lo sforzo di cercare la verità dietro la maschera.
Quando Saviano scrive Gomorra fa un’operazione senza precedenti sulla pagina scritta. Che è quella di voler raccontare la verità nuda e cruda lontana dagli stereotipi. Saviano nel raccontare la figura dei boss usa la stessa arma che fu di Impastato, con meno ironia e più gravità certo, ma con la stessa forza della distruzione di una mitologia che vede nel criminale la quintessenza del fascino. Non che questa non ci sia e attraversa, giustamente, parte della storia della rappresentazione artistica e cinematografica: dallo Stavrogin dostoeskijano a Jesse James, dalla famiglia Corleone a Tony Montana fino agli eroi in negativo di casa nostra dal bel Renè Vallanzasca fino ai gangster all’amatriciana di Romanzo Criminale. Saviano non celebra mai i protagonisti negativi dei quali si occupa, fa esattamente l’opposto. Li umilia, li offende, cerca di distruggerne il fascino che pure hanno mostrandone le debolezze, le manchevolezze, gli aspetti ridicoli e feroci allo stesso tempo. E’ per questo che gliel’hanno giurata. E’ per questo che per lui come per Siani prima e Peppino Impastato ancora prima si è aperta la strada della vendetta.
Nello stesso tempo Saviano si fa portavoce di un bisogno: quello di combattere le mafie non solo nei palazzi di giustizia ma con la parola. In una sfida che è altissima, quella di abbattere la criminalità colpendo quella vasta aria di connivenza, spesso anche solo ideale, che ha permesso alle mafie di controllare gran parte del paese. Fare in modo che se ne parli, non far mancare l’attenzione è la sua scelta, una scelta dettata dalla consapevolezza che le mafie hanno bisogno di silenzio per poter agire indisturbate e di un’opinione pubblica che sia sonnolente e distratta da altro per voltare, omertosamente la faccia dall’altra parte. Per poter poi dire: non sapevo. Se Saviano ha un merito è quello che dopo Gomorra nessuno potrà dire “non sapevo”. L’ignoranza riportata a colpa, strappata via dalla scusa in cui si crogiola la borghesia italiana e napoletana in primis.
Saviano non ha mai compiuto un’operazione contro la propria terra. L’accusa che gli si porge è infame. È, né più né meno, la stessa accusa che veniva mossa ai giudici del pool antimafia in una Palermo che non voleva il maxiprocesso, un’inutile “camurria”. Si accusa, con un procedimento vergognoso, colui che accende un faro su un angolo buio della “monnezza” che si trova in quell’angolo, incapaci di vedere che proprio l’omertà, il silenzio sono le armi complici con cui molti di noi alimentano il baratro in cui questa terra è stata fatta precipitare.
Saviano è napoletano, e questo crea una differenza enorme rispetto alle stronzate del piemontese Bocca. La presenza di Saviano narratore in Gomorra è la presenza salvifica della voce di Napoli che si oppone allo schifo. La conclusione del capitolo sulla guerra di Secondigliano, la corsa a perdifiato sulla spiaggia per respirare aria buona è la chiave per capire Gomorra. E’ la parte pulita di una città che cerca il suo spazio, è un grido d’aiuto verso coloro che hanno l’autorità e i mezzi per combattere nell’immediato l’esercito di criminali che toglie il respiro a questa città.
Saviano parla costantemente della possibilità di sconfiggere il sistema. Ma come per tutti i problemi è necessario scavare a fondo la verità per poter pensare di porvi rimedio. Saviano è stato il primo a portare nell’ambito di una discussione pubblica e ampia (è un dato importantissimo questo) la questione di una camorra che abbandonata la coppola s’è fatta imprenditrice. Gli scandali sui rifiuti, gli investimenti all’estero, l’infiltrazione al nord erano temi solo per specialisti fino al giorno prima dell’uscita di Gomorra. Non riconoscergli questo o fare di questo un motivo d’accusa è, ripeto, vergognoso.
Se Saviano indica la luna e la gente, nella sua superficialità vuol vedere il dito la colpa è semmai della gente, non certo di Saviano. Saviano costruisce gran parte del suo lavoro in una resa più immediata e romanzata (nel senso di non fiction di capotiana memoria) degli atti della magistratura che spesso per motivi che ben conosciamo non riesce ad arrivare ai referenti politici. Ma Saviano ha sempre parlato di questo, lo ha fatto in prima serata su RaiTre mostrando, con un anno di anticipo sulle cronache nazionali, i legami della ‘ndrangheta con la Lega Nord (attirandosi in tal modo gli strali di quella gente del nord specchio degli stessi che a sud vogliono nascondere la realtà) facendo nomi e cognomi.
Quanti di noi sono invece responsabili della cattiva immagine di questa città? Quanti di noi vivono nel mito di un’esterofilia idealizzata, quanti di noi con lo stesso “pensiero mitico” vedono solo lo stereotipo delle altre città, senza vederne mai il lato oscuro? Per non parlare dei caroselli di auto che ogni sera affollano le piazze di spaccio, alimentando direttamente il potere dei clan? E come possono arrivare proprio da un gruppo come i Co’sang le accuse di voler arricchirsi sui mali della città quando sono i primi a raccontare di una Napoli criminale? Sarà che forse la grande colpa di Roberto Saviano è il successo?
Sarà che è questo il solo grande motivo alla base delle accuse che gli vengono rivolte. L’invidia per quello che ha raggiunto e che per altri è nulla più che un miraggio? Tralascio la questione sollevata sulla parola disabilità che è stata talmente pretestuosa da non meritare analisi, figlia com’è di quello schema che vede nella polemica contro Saviano unicamente il guadagno di un piccolo e momentaneo posto al sole.
Veniamo invece alla questione israeliana.
Non nutro simpatia per Vittorio Arrigoni. Non mi piacevano i modi, non mi piaceva l’aria stereotipata da rivoluzionario (la pipa che si accende alla fine è un colpo di teatro da b-movie che manifesta come la vecchia lotta anticonformista è stata a partire dal ‘68 nulla più che un miraggio). Non per questo naturalmente non ho rispetto della sua morte e di tutto quello che con coraggio ha fatto prima, Eppure nella morte di Arrigoni c’è in qualche misura la ragione di Saviano (capisco il destino amaro ma è così). Non sta certo a me dare una risposta ed un’analisi del problema israelo palestinese. Quello che è certo è che in realtà è parte di un problema molto più ampio che è quello del conflitto ebreo/arabo e la parola conflitto muta, inevitabilmente, gli scenari.
La nascita dello stato israeliano è tuttora oggetto di discussioni. Sappiamo quanto sia stata delicata e contraddittoria. Sappiamo anche gli interessi che colpiva in un’area così delicata. Ma chi ha almeno 30 anni non può dimenticare gli attentati che in Israele si sono succeduti uccidendo centinaia di innocenti. Scrive Marco Travaglio «Da molti anni Israele ha il record degli attentati. Nessun paese ha avuto tanti civili morti per atti terroristici, nemmeno la Colombia, nemmeno l’Ulster. Per dare un’idea in rapporto alla popolazione, è come se l’Italia avesse subìto una strage di piazza Fontana alla settimana. Quanti stati, in quelle condizioni, sarebbero riusciti a mantenere intatte istituzioni e garanzie democratiche, in una regione dove la democrazia è quasi una bestemmia? Israele, pur con errori, eccessi e contraddizioni, ci è riuscito». Ed è un dato che non giustifica un bel niente sia chiaro ma che è da tener presente per capire le ragioni anche dell’altra parte. Non illudiamoci, per certi aspetti la possibile realizzazione di uno stato palestinese è lo specchio della sopravvivenza di Israele. O qualcuno è così ingenuo da credere che gli stati arabi sarebbero stati disposti alla nascita di un territorio indipendente nella loro area?
È il caso di uscire da questa dimensione manichea ebreo/palestinese, destra/sinistra. Anche se non è certo un caso che Saviano e Travaglio che difendono in qualche modo alcune delle scelte di Israele siano di destra. In questa anomalia tutta italiana in cui due autori di destra sono assurti a simbolo di una sinistra priva di voci autorevoli.
Abbiamo celebrato con troppa fretta le rivoluzioni arabe senza accorgerci (almeno tra i meno scaltri di noi) il rischio della deriva fondamentalista che era pronta ad entrare in azione. La stessa che si cela dietro le ragioni sacrosante dei palestinesi.
La morte di Arrigoni non è avvenuta per mano del nemico sionista ma per quella jihadista salafita della stessa terra araba. Arrigoni non era uno sprovveduto e gli va dato atto di essere stato critico nei confronti tanto di Hamas che di al-fatah. Ma proprio per questo non poteva sapere che anche lo stato palestinese non si può dire certo scevro da logiche di non accoglienza e di intolleranza. Probabilmente ognuno di noi, uomini e donne, sceglierebbe Israele per vivere non la Palestina. Noi così pronti a parlare di dittatura per la strana democrazia berlusconiana e pronti a rivendicare i nostri diritti da cittadini occidentali degli anni duemila.
Quando Saviano difende Israele fa riferimento proprio al fatto che è l’unica realtà medio orientale che può dirsi almeno in gran parte democratica, almeno nelle condizioni dello stato di guerra in cui si trova dalla sua nascita. Non dimentichiamo che il 20 % della popolazione di Israele è araba, non dimentichiamo che gran parte delle colpe di quel conflitto sono straniere, inglesi e statunitensi (illuminante in questo senso il capitolo La Via Crucis contenuto in “Cristo con il fucile in spalla”, Ryszard Kapuscinski, Feltrinelli). Con questo, ripeto, non giustifico le logiche di difesa che lo stato di Israele porta avanti da qualche anno; desidero solo dire che se vogliamo davvero essere “indiependenti” è necessario scardinare i luoghi comuni e offrire una prospettiva che sia altra da quella di un pensiero mitico. E con la forza della ragione e dell’onestà intellettuale cogliere nelle contraddizioni di un Saviano come di altri lo spunto per un dialogo che ci permetta di accedere ad una visione che abbandoni la stretta prospettiva dell’ideologia per aprirsi ad orizzonti che sappiano di lucida verità.