Tra le parole di Paul Auster, per ricordarlo.
Da Diario d’inverno
No, tu non vuoi morire, e pur avvicinandoti all’età che tuo padre aveva quando finí la sua vita non hai telefonato a nessun cimitero per prenotare un luogo di sepoltura, non hai dato via nessuno dei libri che sei sicuro di non leggere mai piú, e non hai cominciato a schiarirti la voce per gli addii. Eppure, tredici anni fa, appena un mese dopo il tuo cinquantesimo compleanno, mentre pranzavi con un sandwich al tonno seduto nel tuo studio al piano di sotto, avesti quello che ora chiami il tuo falso infarto, un assedio in crescendo di dolore che si era espanso nel torace e giú lungo il braccio sinistro e su fino alla mascella, i classici sintomi del disordine e dell’insulto cardiaco, il temutissimo infarto coronarico che può stroncare la vita di un uomo in pochi minuti, e mentre il dolore continuava ad aumentare toccando punte sempre piú alte di infuocata violenza, bruciandoti le viscere e incendiandoti il petto, tu, debole e con il capogiro, ti alzasti in piedi barcollando, salisti le scale piano piano reggendoti alla ringhiera con entrambe le mani e stramazzasti sul pianerottolo al livello del salotto chiamando tua moglie con una voce fioca appena udibile. Lei scese di corsa dal piano superiore e quando ti vide steso supino ti prese fra le braccia e ti tenne lí, chiedendoti dove ti faceva male, dicendoti che avrebbe chiamato il dottore, e mentre la guardavi in viso eri convinto che tra poco saresti morto perché un dolore di quelle proporzioni poteva solo significare la morte, e lo strano in tutto ciò, forse la cosa piú strana che ti sia mai successa, è che non avevi paura, no: eri calmo e accettavi pienamente l’idea di essere sul punto di lasciare questo mondo, e dicevi a te stesso: Ecco, adesso morirai e forse la morte non è brutta come pensavi, perché sei qui fra le braccia della donna che ami, e se devi morire adesso ritieniti fortunato di essere vissuto fino a cinquant’anni. Ti portarono all’ospedale, ti tennero in un letto del pronto soccorso per una notte sottoponendoti ogni quattro ore agli esami del sangue, e in capo alla mattina seguente l’attacco di cuore si era trasformato in un’infiammazione all’esofago, aggravata senz’altro dalla massiccia dose di succo di limone nel tuo sandwich. La vita ti era stata restituita, il cuore era sano e batteva normalmente, e oltre a tutte queste buone notizie avevi imparato che la morte non era piú una cosa da temere, che quando per una persona arriva il momento di morire, il suo essere passa in un’altra zona della coscienza e la persona è in grado di accettarlo. O cosí credevi. Cinque anni dopo, quando ti venne il primo dei tuoi attacchi di panico, l’improvviso, mostruoso attacco di panico che dilaniò il tuo corpo e ti atterrò, non eri calmo o rassegnato neanche un po’. Anche allora pensasti di morire, ma questa volta urlasti di terrore, piú spaventato di quanto fossi mai stato in tutta la tua vita. Tanti saluti alle altre zone della coscienza e ai congedi sereni da questa valle di lacrime. Eri steso sul pavimento e ululavi, ululavi con quanto fiato avevi in corpo, ululavi perché la morte era dentro di te e non volevi morire.
(…)
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Per fare quello che fai hai bisogno di camminare. È camminare che ti porta le parole, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore. Due occhi, due orecchie, due braccia, due gambe, due piedi. Questo, e poi quello. Quello, e poi questo. Scrivere incomincia nel corpo, è la musica del corpo, e anche se le parole hanno significato, possono a volte avere significato, è nella musica delle parole che i significati hanno inizio. Siedi alla tua scrivania per scrivere le parole, ma nella mente stai ancora camminando, sempre camminando, e quello che senti è il ritmo del tuo cuore, il battito del tuo cuore. Mandel´stam: «Mi chiedo quante paia di sandali avrà consumato Dante mentre lavorava alla Commedia». Scrivere come forma minore di danza.