Paul Auster sapeva che Baumgartner poteva essere il suo ultimo romanzo. Il cancro era là, dentro il suo corpo, come un disgraziato orologio che ticchetta e ricorda che il beato tempo della scrittura non può andare avanti all’infinito. Nelle interviste più recenti lo scrittore americano parlava con malinconico realismo della sua malattia, a tratti Baumgartner somigliava già a un commiato dalla scrittura. Apri il libro, scorri le pagine e non puoi fare a meno che sussultare davanti a un presentimento di fine. Per certi versi Baumgartner è una storia di terrore.
Sy Baumgartner è un anziano professore alle prese con i più insignificanti eventi della quotidianità. Sy Baumgartner si muove nella sua casa, sta scrivendo un piccolo libro su Kierkegaard, se ne sta ritirato in una specie di tana segreta. Sy Baumgartner è affollato da visioni della moglie morta.
Baumgartner è una storia di assenza, solitudine, reminiscenze. È come se Paul Auster con il suo ultimo racconto avesse evocato il fantasma della morte in casa sua. È come se avesse lasciato una lettera in forma di romanzo, una lettera per i lettori e per sua moglie Siri Hustvedt: questo è quello che accadrà, ci muoveremo per case e strade come cercatori di assenze, danzatori di pagine bianche. Non ci saremo più nei nostri corpi, ma resterà la sensazione fisica di una presenza, la testimonianza di un filamento di cellule che scalpita per un’ultima volta, una penna tra le mani che scrive dalla notte.
Auster ha raccontato di aver pensato di chiamare il romanzo Phantom Limb, come la sindrome dell’arto mancante, la sensazione che l’arto amputato sia ancora presente, che pulsi, faccia parte del corpo. Riflettendo su un incidente con una sega che ha mozzato le dita a un uomo, il vecchio Sy medita sull’arto fantasma e si lascia andare a libere associazioni con la morte della moglie. Baumgartner vede nella sindrome “una metafora della sofferenza e della perdita”: l’arto mancante non c’è più, ma resta l’illusione di sentire la sua carne nel vuoto.
Nella scrittura di Paul Auster c’era una parte fisica, si aggirava tra le parole come un camminatore, aveva una presa da sportivo. Auster metteva in gioco la pelle, non aveva paura di affondare nemmeno nelle piccole gioie e nefandezze del corpo umano.
Ne L’invenzione della solitudine racconta di suo padre, della morte del padre, del difficile rapporto che aveva con lui, pare quasi di vederlo il padre di carne e ossa mentre il figlio rievoca vecchie vicende di famiglia, omicidi truculenti, brevi incontri a Parigi, partite di baseball, e dilata la storia in riflessioni sulla scrittura e la solitudine dell’essere umano. Paul Auster si lascia andare fisicamente a scrivere con una gioiosa pulsazione alle mani; da qualche parte nel suo cuore era stato toccato dal puro amore per la scrittura e a quello si era consegnato. Nell’ossessione non c’era altra scelta.
In un’intervista a Lou Reed aveva detto, “tu da bambino hai trovato la chitarra e io la penna”. Non se ne sarebbe più separato. “In un certo senso, tutta la scrittura è un fallimento”, diceva evocando l’umorismo di Beckett. Era un battagliero con pulsioni assurdiste, un compulsivo narratore di storie con slanci vitali che si afferravano agli incipit, aperture così fulminanti che poi era impossibile non crollare di ritmo.
“Era l’estate in cui per la prima volta gli uomini posero piede sulla luna. A quei tempi ero molto giovane, tuttavia non credevo che esistesse un futuro. Volevo vivere pericolosamente, spingermi il più lontano possibile per vedere che cosa sarebbe successo una volta arrivato fin lì. In realtà non lo feci affatto. A poco a poco vidi i miei soldi ridursi a zero, venni privato dell’appartamento nel quale abitavo, finii con il vivere per strada.” Moon Palace
Auster era un raro tipo di scrittore che ancora usava la macchina da scrivere, e forse per quella nevrosi fisica che è battere a macchina e revisionare a mano, non poteva fare a meno di calarsi con il corpo nelle parole. Anche in Baumgartner il corpo si fa sentire, si impone. Sy guarda sé stesso come un uomo a metà, la sua ferita mai rimarginata spezza il cuore. È una storia di disfacimento, persino New York e il suo vecchio sogno sembrano dileguarsi in un presagio di decadenza.
In certi momenti si ha la tentazione di abbandonare il libro e disertare la lettura. Auster scrive da una specie di orlo, in una terra di confine tra la vita e la morte. Si mette in gioco, scrive con la pelle. Il dolore è così aperto che è difficile da sostenere. Si ha la tentazione di andare indietro nel tempo a leggere un altro Auster. Il giovane disincantato poeta. Un capitolo della Trilogia di New York, un frammento dalla seconda persona di Diario d’inverno, tornare indietro per buttarsi in un altro ritmo delle parole.
E così succede, comincio Baumgartner e non lo finisco. Qualcosa mi trattiene dal finirlo. Sento l’inflessione della voce dell’autore morente. Che se ne sta andando. Che mi saluta da una terra di confine. Che lentamente sparisce. E poi Auster se ne è andato davvero. Il suo arto mancante sta ancora scrivendo.