Paul Auster si è sempre distinto dagli altri postmodernisti per una sorta di musicalità della pagina scritta, caratterizzata da una serie di paradossi ben chiari e dai tratti beffardi, scandito da ritmi ariosi in situazioni molto spesso claustrofobiche e circoscritte a una città o, addirittura, a un quartiere e altre estese oltre i limiti del conosciuto. Un suono regolare, immerso nel caos, un Charlie Parker che suona Ornitholgy sulla Quinta Avenue, un undici settembre sfiorato per una di quelle coincidenze che ne hanno segnato la carriera, convinto a tal punto dell’assurdo delle nostre scelte da riempire i propri romanzi di incontri casuali, di sorprese spezzagambe, cadute e risalite di una lotta senza padrone. Non Dio, non i padri, per Paul Auster si è sempre trattato dell’immaginazione che mescola il dato di fatto, anche quando l’universo è distrutto (Nel paese delle ultime cose) o si tratta di un genuino sentimento di scoperta (Mr. Vertigo).
Per tutte le 939 pagine della versione italiana che compongono 4 3 2 1, nelle quattro possibili vite di Archie Ferguson, Paul Auster capovolge il filo conduttore della casualità che forgia l’esistenza di ognuno di noi e che tesse le trame de La Trilogia di New York fino a Sunset Park, per rintracciare le sue linee più imperscrutabili che, a sorpresa, forse per le riflessioni di una vita intera, ritrovano nella propria vocazione alla scrittura un tratto distintivo, indissolubile, che ne caratterizza tutti i suoi personaggi. Questi quattro Ferguson, così simili, così diversi, forniti di un background di partenza basilare si forgiano attraverso gli avvenimenti, gli amori, le partite delle World Series di baseball – o, più in generale, – dall’esperienza, senza che questo li distingua del tutto. Quattro versioni ma, in fondo, una sola, che si intreccia lungo le strade di New York, ancora una volta Leviatano mitico in cui tutto si crea e si distrugge con una velocità non ancora impazzita e, paradossalmente, tra le mani dei suoi babyboomer. La città irreale, quella del sentimento, delle rivolte razziali, dei soprusi commessi dalla polizia nelle aule della Columbia durante il ‘68 e per le strade nei downtown, si oppone alla città reale, che seduce e abbandona tutti con il suo sogno americano, i diner sempre aperti dove si riproducono infiniti racconti di vittoria e sconfitta, senza che una prevalga sull’altra, ma alimenta il cambiamento, le possibilità, il viaggio dei Ferguson nelle linee di un’esistenza non chiara e da scoprire.
2.3
Suo nonno lo definì uno strano interregno, cioè un tempo che stava fra due tempi, un tempo senza tempo in cui tutte le regole su come si dovrebbe vivere erano volate dalla finestra.
4 3 2 1 è prima di tutto un romanzo esistenziale e poi di formazione, politico, di costume e infine sociale, un metaromanzo basato sulle scelte determinate dal tempo storico e da quello vissuto, forse tutti questi elementi insieme, che permettono di ricostruire un mondo interno e alternativo attraverso cui indagare i tratti del suo demiurgo vero e proprio. È un libro, soprattutto, su e per Auster, sulla giovinezza a cui guardare con malinconia e in cui affronta – ça va sans dire – ciò che sarebbe potuto essere. Quello che leggiamo non è un’autobiografia improntata sui what if, è piuttosto la biografia dello spirito di quegli anni vissuti da quattro angolazioni, riprodotti in maniera maniacale ed estremamente densa, la rappresentazione del tempo della potenzialità (per Auster) che pure viene vissuto in maniera distante, nelle retrovie, fra una vocazione giornalistica e un’altra, invece, che vive del proprio tempo interiore. La parte centrale di 4 3 2 1 è, non a caso, quella dalla formazione – sportiva, amatoriale, artistica – in cui i personaggi evolvono, ritrovandosi davanti a bivi comuni a cui danno risposte differenti ma si raccolgono attorno a una missione condivisa e accompagnata da una serie di figure ricorrenti, di libri e film incrociati in tutte e quattro le alternative. Il prisma emotivo si concentra e si schiaccia sulla vocazione alla letteratura, al significato che ha questo tipo di espressione nella vita dell’autore, su quanta sostanza gli abbia trasmesso. Un topos che compone quella musica, del caso, del Diario d’inverno, di questi uomini che pur brancolando nel buio si inventano una luce che li possa guidare. A ognuno la sua – sembra dirci Auster, lungo il suo viaggio nella postmoderità – che, come per Albert Camus, non è che figlia dell’assurdità dell’esistenza.
6.3
Vuoto. Ecco qual era la definizione, si disse, mentre si sedeva sul divano e beveva il primo sorso di vino, lo stesso spazio vuoto di cui aveva parlato Viviano quando avevo descritto come si era sentita dopo aver finito il suo libro. Sì, esatto, svuotata come era un bambino senza vita, un neonato che non sarebbe mai cambiato né cresciuto e non avrebbe imparato a camminare, perché i libri vivevano dentro di te solo finché li scrivevi, ma una volta usciti, erano consumati e morti.
Sono i Fantasmi de La trilogia di New York, gli scatoloni di Sunset Park, l’umana follia di Brooklyn. 4 3 2 1 sembra incastrarli tutti e portarsi via la loro non struttura, per condensare l’evidente missione di ogni scrittore di raccontare storie, anche quando le storie non ci sono più. Una scelta radicale, nemmeno troppo celata, che sconvolge le pagine del romanzo e le mette in ordine, qualsiasi sia la scelta di lettura. Con questa prova durata sette anni di scritture e riscritture, Paul Auster mette su carta un realismo per certi versi strumentale, clinico à la Comedie Humaine che alle volte si perde nella rapsodia beat, fomenta i colpi di scena come un romanzo d’avventura sentimentale, ma lo fa scomodando il lettore. Traumatizzandolo, ferendolo, muovendone l’animo fin quasi alla rabbia e all’esaltazione, a tratti alla noia e alla delusione per i passaggi non chiari e le storie infrante. Auster sembra darci una lezione importante sulla narrativa, e lo fa col mestiere del giardiniere schizofrenico, che taglia i rami dell’albero che non erano destinati a crescere, mentre lascia che quelli più rigogliosi crescano da soli – a volte in maniera anche eccessiva – sino ad autosostenersi. 4 3 2 1, in fondo, è una scatola cinese infinita che si sviluppa con il lettore, in cui l’incastro è implicito ma svelato al finale, non dichiarato, come tutte le storie nate per caso. Ma proprio quando tutto ritorna in orbita, acquista un senso, ecco che si rompe. Il filo della tensione che si interrompe alla fine di ciascun capitolo, anche quando la pagina è bianca, rompe un mondo per crearne uno nuovo. Non estremo come le evoluzioni di Rayuela perché l’obiettivo non è svelare il gioco dietro ogni nostra costruzione ma assecondarne il riverbero, in lontananza, che caratterizza ciascuna esistenza che, per Paul Auster, è l’inganno o la salvezza, chiamata letteratura.
Stava scrivendo un libro sulla morte, e certi giorni gli sembrava che il libro stesse cercando di ucciderlo.