A quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini cosa è rimasto di quello scandalo vivente che fu l’uomo e lo scrittore e il regista e il poeta e l’intellettuale Pasolini? Probabilmente nulla, a parte qualche citazione qui e là che ogni tanto ci tira fuori dalla banalità quotidiana. Pasolini resta il porco che si culla nel suo porcile, il pederasta deviato, l’amato e odiato, tirato per i capelli a seconda delle circostanze, il bestemmiatore che lottava contro l’aborto, il denunciatore della borghesia che prese le parti dei poliziotti-operai a Valle Giulia, il tirapiedi che andava in televisione a ribellarsi contro il fascismo della tv. Non è un uomo facile il Pasolini decantato, come non è un uomo facile quello santificato e poi rinnegato. Ogni parola scritta sul suo conto è uno scandalo che evapora prestissimo, perciò non è facile parlarne, non è facile scriverne: la cosa più onesta da fare sarebbe rinunciarci.
E pensare che PPP da piccolo sognava di diventare un calciatore, mica un intellettuale, perché il vero poeta è un giocatore di pallone. Con grande semplicità Pasolini racconta l’epica del goal, il capocannoniere è il poeta più fantasioso di tutti, e il poeta in fondo è solo uno a cui piace giocare. Il calcio è anche un rituale sopravvissuto a tutti gli altri, e non è un’attività separata da pensiero e dissenso. Chiaro che oggi me lo immagino Pasolini a parlar di calcio con tutto quello che è successo intanto al calcio, la bellezza di giocare sui prati in calzoncini contro l’epica delle partite truccate. L’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo che non ha più la naturalezza dei primi tempi. I ragazzi di vita sono i ragazzi di strada, tra cui troppo spesso viene rimproverato a PPP di ricercare il suo Tadzio.
”Lo scandalo del contraddirmi” è il verso che forse riesce a racchiudere meglio l’immaginario pasoliniano, e non solo perché troviamo queste parole ne Le Ceneri di Gramsci, testamento della vicinanza e insieme della marea di contraddizioni che legavano Pasolini al PCI (e al suo fondatore), ma anche perché descrivono due parole che vestono bene il personaggio e l’uomo Pasolini, lo scandalo e la contraddizione. Scandaloso PPP lo è stato come in molti aspirano a diventarlo a forza di citarlo, ma senza averne la naturalezza. Nel girare Il Vangelo secondo Matteo per esempio Pier Paolo si avvicina al messaggio cristiano come rivoluzionario, come a preconizzare la sintesi tra valori cattolici (che pure rifiutava) e comunisti che verrà fuori in quegli anni.
Pasolini è contro l’aborto, perché ”legalizzazione dell’omicidio”. Pasolini rifugge la modernità totale, l’emancipazione con cui viviamo oggi i temi etici, l’estremo individualismo con cui l’uomo si approccia all’ultrà-capitalismo. Pasolini è un marxista a New York, nelle parole di un reportage di Oriana Fallaci su L’Europeo, dove nell’ammirazione che prova per la Grande Mela si legge una crisi, una nuova contraddizione. La sua avversione al fascismo di qualunque specie e natura si legge anche nelle parole di solidarietà che dedicherà ai disperati fratelli di lotta o diseredati della terra, al greco Panagulis per esempio, che verrà strappato alla vita in un attentato, ricordando da vicino come Pasolini stesso fu strappato la vita in una notte selvaggia a Ostia. E anche nella sua fine violenta troviamo scandalo e contraddizione, lo scandalo del Pasolini pederasta, la contraddizione di tutta una narrazione che non quadra e su cui ancora oggi si dibatte con furia.
Di Pasolini resta ancora oggi un’eredità straordinaria, che non è quella del suo santino, per alcuni intoccabile, per altri da smontare parola per parola con un’accuratezza che ricorda da vicino quella di un qualsiasi stalker, ma è l’eredità che affonda viva dentro la carne del paese in cui viviamo. Resta, per esempio, un documentario come Comizi D’Amore che racconta l’Italia e gli italiani meglio di qualsiasi film neo-realista, e che oggi per certi versi ispira tutte quelle narrazioni video che interrogano direttamente gli italiani. In quei Comizi affrontiamo in faccia la verità del paese, i cambiamenti, le piccoli differenze che si rincorrono nello stivale da Nord a Sud, e ne usciamo come disorientati pur accettandone la verità. Del resto la narrazione del Sud che esce fuori anche dagli altri amari scritti di Pasolini (friulano di adozione romana) è quasi mitologica, terra abitata da un Gennariello da amare incondizionatamente, perché – nel suo folklore napoletano – resiste al capitalismo che ci vorrebbe tutti uguali come il prezzo di una Coca Cola.
Ma tutta questa eredità potenziale sembra quasi disturbata alla realtà dei fatti, come se un rumore di fondo la stordisse, come se tutta questa follia del ricordo ossessivo in fondo fosse fine a se stessa, come non fosse cambiato nulla in questa carne viva del paese. Pasolini è uno di quegli intellettuali italiani di cui oggi si sente la mancanza, una di quelle contraddizioni viventi che riescono a regalarti un punto di vista alternativo come una perla preziosa, anche quando sei in totale disaccordo. Di quegli schiaffi e delle bestemmie avremmo bisogno, e anche di quella prosa che si riproponeva di essere impeccabile e tagliente allo stesso modo, di quell’urlo in faccia al lettore che al posto di dire la parola magica ‘sveglia’ come un imperativo morale dissociato e arrogante, ha solo l’effetto di tirar fuori da un sonno lento e faticoso in cui si stordisce il paese, con gentilezza.
Il linguaggio di PPP si adattava benissimo all’epoca in cui viveva PPP, e oggi viene tirato in ballo a turno come fosse un cadavere da sezionare al dettaglio. Il fascismo che amava citare Pasolini era l’ansia di un uomo che nel periodo fascista aveva vissuto, e che in quella battaglia contro la dittatura aveva perduto un fratello. Le parole che rubiamo a Pasolini oggi per adattarle alla contemporaneità diventano vuoti abusi che si schiacciano contro il tempo. Come eroe e rinnegato insieme, il Pasolini porco e pederasta a cui una parte d’Italia sembra disposta a rinunciare è il contraltare del Pasolini a cui un’altra parte d’Italia è devota. Al centro ci sono le sue parole. E il modo in cui ha giocato la vita. Una delle figure più importanti del Novecento italiano, un classico, nel senso in cui Calvino intendeva i classici, quei libri che non si finisce mai di rileggere.