La storia che congiunge Pier Paolo Pasolini e Jean-Luc Godard si snoda su una serie di livelli. Sinceramente uniti da una stima professionale reciproca e incondizionata, i due si sono più volte scontrati nell’intento di difendere i rispettivi feticci, per i quali entrambi nutrivano una smaniosa e irreversibile affezione.
Pasolini non disconoscerà mai il ruolo dell’opera di Godard, assimilandolo a figure come quella di Jean Renoir, consolidandone il valore pioneristico e l’apporto innovativo nell’alveo della storia del cinema. Altrettanto, non maschererà un certo sdegno nei confronti di alcuni elementi paradigmatici della Nouvelle Vague, pedantemente enfatizzati ed esasperati nelle pellicole di Godard.
Lo stesso Pasolini, come risulta dalle trascrizioni di un dibattito tenutosi presso il teatro Gobetti di Torino nel 1969, ci terrà a precisare che la sua concezione originaria dello strumento filmico tenderebbe ad avvicinarsi a quella di un macchinario in grado di concepire e generare un certo tipo di risultato, vale a dire un’opera (come la definiva Gramsci) a carattere nazional-popolare.
L’implosione del sistema paleocapitalista e la morte della borghesia cattiva, repressiva, prepotente e contestualmente del popolo puro, ha inevitabilmente indirizzato Pasolini verso una rimodulazione dei canoni e delle ragioni del suo cinema, riavvicinandolo alla concezione elitaria avanzata da Godard, che PPP definiva, con una certa drasticità, come un processo in grado di rivolgersi a non più di cinquemila persone.
Pasolini individua ne Il Vangelo secondo Matteo, non a caso recentemente elevata dalla Chiesa a miglior opera su Gesù della storia del cinema, la pietra miliare che chiude la fase promulgativa del percorso creativo pasoliniano.
È proprio qui che Pasolini comincerà a innestare nei suoi lavori i tanto odiati inceppi formali, che, nella memoria collettiva, arriveranno a caratterizzare l’ultima fase della sua produzione. La sequenza finale di Salò, difatti, è un incalzante concatenarsi di escamotage tecnici, dalla visione binoculare al controtipo sgranato (probabilmente utilizzato per far fronte al furto di una parte della copia negativa del film), dall’uso dei vetri come filtro visivo a scandire tempo storico e tempo reale alla mancata rappresentazione del momento della morte dei personaggi.
Mettendo da parte i tributi indirettamente iniettati nella strumentazione filmica pasoliniana, i due cominceranno a interfacciarsi con meno diffidenza grazie a una collaborazione che nascerà sul set e si estenderà ad ulteriori curiosi episodi. Prima, attraverso l’incontro per la realizzazione di Ro.Go.Pa.G. e Amore e Rabbia; poi, con lo scambio di alcuni dei loro giocattoli più pregiati. Jean-Pierre Leaud prenderà parte a Porcile insieme ad Anne Wiazemsky, che verrà riproposta anche in Teorema.
Così quella reciproca e sincera venerazione, spesso bisbigliata o trasversalmente riconosciuta, si condensa in un faraonico scambio di doni.
Ma, in tutto ciò, dove sono gli omaggi di Godard al cinema di Pasolini? Ha forse Sergio Citti recitato in Le gai savoir? Il tributo di JLG si fa decisamente attendere, ma è individuabile in primis in Passion (evidente, per quanto apparentemente celato, il riferimento a La ricotta), successivamente nel calderone Histoire(s) du cinema, nel quale Pasolini sarà definitivamente consacrato come punto di riferimento indiscusso nella ricostruzione storico-sinottica della storia del cinema.
Entrambi hanno in qualche modo completato la propria visione delle cose vicendevolmente, attraverso piccoli, impercettibili scambi, malcelati sorrisi e percorsi personali sostanzialmente non distanti; perennemente discussi e ai margini, volontariamente criptici e inevitabilmente fraintesi.
Come in un film di Godard: solo
In una macchina che corre per le autostrade
Del Neo-capitalismo latino