“Parthenope” di Paolo Sorrentino: un viaggio nell’ambiguità del desiderio

Non è stato facile scrivere di questo film, ho preso tempo cercando di tirare fuori quella parte in me che venera il regista Sorrentino, destreggiandomi tra molteplici interviste, detrattori, critiche giuste o sbagliate, persone che non hanno visto il film ma hanno sentito comunque l’esigenza di doverne parlare.

A volte ho quasi la percezione che Sorrentino sia il regista più bistrattato nel panorama italiano, come se ci fosse una presa di posizione consolidata e insormontabile.

Ma atteniamoci al film e lasciamo fuori tutto il resto.

In Parthenope c’è un racconto intimo, dedicato alle esperienze emotive e alla complessità dell’essere umano. Ci si interroga sulla tensione amorosa sul rapporto con il desiderio, sulla sofferenza e la solitudine. Temi che Sorrentino ha spesso mostrato al pubblico e sviscerato (non è mai abbastanza).

Nel personaggio di Parthenope si riflettono elementi che mi hanno riportata a Hilarotragoedia (1964) di Giorgio Manganelli, un testo che esplora l’esistenza come una “tragedia” intrisa di ironia e ambiguità.

In Hilarotragoedia l’autore analizza la fragilità dell’identità, il senso del nulla e la caducità delle cose belle, trattando questi temi con una vena ironica ma profondamente malinconica.

Il libro inizia con questa dichiarazione: “L’uomo ha natura discenditiva”; avvicinarsi a qualcosa di ripugnante ma da cui siamo affascinati, sprofondare nel baratro per riuscire a conoscerci meglio.

L’idea che la bellezza sia effimera ma impossibile da dimenticare, destinata a essere osservata come un’illusione passeggera, si collega al modo in cui i personaggi di Parthenope percepiscono e vivono le loro esperienze, tra la voglia matta di possesso (assolutamente temporaneo) e l’inevitabilità del distacco.

Mi è sembrato di vedere tre film diversi su tre fasi della vita. Sappiamo fin da subito che Parthenope è bellissima, ammaliante, ma mai furba. Vive una giovinezza spensierata, l’estate più bella della sua vita, che sarà interrotta da un evento che cambierà tutto il corso delle sue scelte. Da quella estate non è più uscita (e forse ci pensa ancora).

Si è molto parlato di male gaze e di come sia stato “costruito” l’unico personaggio femminile sorrentiniano.

Gli uomini che circondano Parthenope sono uomini ricchi o presunti tali, che vogliono solo possedere la sua bellezza come se comprassero un oggetto di lusso non alla portata di tutti. Dopo che l’hanno avuta la scaricano (“mi faccio sentire io”, “sai ho deciso di voler diventare Papa”) e se non si concede la solita solfa è “in fondo non sei poi così bella, non sei poi così intelligente”.

Per buona metà del film non mi è sembrato di vedere una donna, ma un’entità (mitologica, spettrale, miracolosa che non è neanche l’incarnazione della città di Napoli); Parthenope si fa donna nel momento in cui sceglie e decide autonomamente il suo percorso attraverso il sostegno dell’unico uomo che non “abusa” della sua bellezza (il professore Devoto Marotta di Orlando, ma ancor prima il Cheever di Oldman).

Continuare a studiare rende Parthenope libera e l’allontana da quella vischiosa e sordida umanità .

La sua è una femminilità malinconicamente nostalgica. Il ricordo, che diventa introspezione quasi ossessiva, di Parthenope per il fratello – il cui nome richiama quello di Raimondo di Sangro, alchimista, principe e committente della Cappella Sansevero – suggerisce un legame fatto di segreti, come se la loro identità fosse plasmata sul non detto ma da un sentire che li lega in maniera viscerale, come leggersi nel pensiero, una magia.

Raimondo è perso per la sorella e quel troppo amore che non può concretizzare lo prosciuga.

Tra la varie sperimentazioni del Principe di Sangro ci fu quella di verificare l’attendibilità del miracolo del sangue di San Gennaro, attestato per la prima volta nel 1389.

Chiedendosi in quali circostanze una sostanza potesse liquefarsi e poi nuovamente coagularsi, riprodusse il miracolo in laboratorio, componendo «una certa materia simile al sangue di San Gennaro».

L’esperimento è descritto molto vividamente dal suo contemporaneo de Lalande:

«Ha fatto costruire un ostensorio o teca simile a quella di San Gennaro, con due ampolle della stessa forma, piene di un amalgama di oro e mercurio misto a cinabro, dello stesso colore del sangue coagulato. Per rendere fluido questo amalgama c’è nel cavo della bordatura un serbatoio di mercurio fluido con una valvola che, quando la teca viene capovolta, si apre per lasciare entrare mercurio nell’ampolla. A questo punto l’amalgama diventa liquido e imita la liquefazione; ma questa è una pura ipotesi di fisica, adatta a spiegare un effetto. È proprio di un grande fisico voler tutto spiegare e tutto imitare».

Imitare è il verbo che un po’ rappresenta la vita in questo film; a volte imitiamo un’esistenza non nostra che non viviamo davvero appieno. Una maschera, un trucco.

I protagonisti vivono in uno stato di perenne oscillazione tra il desiderio e la perdita, quasi come fossero consapevoli della transitorietà e dell’inutilità del loro stesso percorso.

Sorrentino costruisce il loro mondo come Cheever costruisce il percorso del suo nuotatore (1964, proprio come il libro di Manganelli), mostrandoci personaggi che tentano di ancorarsi alla bellezza. Ogni istante sembra intensamente presente ma anche inevitabilmente destinato a perdersi.

In questo, Parthenope, è un viaggio nell’intimo e nell’esperienza dove l’identità e il corpo diventano elementi di passaggio, quasi sacrificali.

Sorrentino mette in scena la transitorietà dell’esistenza: ogni personaggio è una metafora vivente del desiderio insoddisfatto, una ricerca di senso in un mondo che sembra destinato a lasciarci solo con il ricordo di ciò che è stato, o di ciò che poteva essere.

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