Partecipare per non precipitare | I Fine Before You Came all’Inverno Fest Preview

Le foto sono a cura di Francesco Pattacini

 

Il 26 gennaio 1958 Allen Ginsberg, fatto di peyote e benzodiazepine, urlava il suo disagio in faccia a giovani newyorkesi affascinati dalla beat generation e dalle sue esagerazioni. Esattamente 60 anni dopo, il 26 gennaio 2018, i Fine Before You Came, poeti dell’emo, calciatori dell’hardcore, provocatori di menti e corpi incarcerati dentro le onde magnetiche delle linee wifi, hanno urlato fino all’ultimo argomento che la loro gola potesse sostenere davanti il pubblico del Covo Club di Bologna, per la preview dell’Inverno Fest. Noi c’eravamo e ora vi raccontiamo come siamo tornati a casa pieni di lividi sulle corde vocali.

 

 

Iniziano i Bruuno, giovane band post-hardcore veneta. Il suono di basso, forte come un pugno nello stomaco, aggiusta ogni colpo di batteria e inizia a far smuovere le viscere del pubblico già numeroso. Nella platea di questo storico “teatro punk” bolognese, attivo già nel 1980 quando avere una cresta o un giubbotto borchiato aveva, forse, ancora un senso, ci sono volti importanti. Betani dei The Pills, ormai diventato il Mangoni dei FBYC, dato che compare in quasi ogni video live della band milanese, i Gomma al completo e anche gli stessi FBYC che si guardano il concerto in prima fila. Gli spettatori, ancora storditi dalla cena e si sa, la cucina bolognese è davvero pesante, sembrano non dare troppi segni di vita, nonostante la performance di alto livello dei Bruuno. Giusto durante Casper e Ruggire come le porte si vede un accenno di pogo, ma è evidente che tutti stiano preservando le poche ossa buone per il concerto di Jacopo e soci.

 

Arriva il momento dei FBYC. Li vediamo farsi strada tra la folla con le chitarre in braccio. Quello che potrebbe sembrare una trovata divertente per iniziare un concerto in realtà qui diventa un’esigenza. Il Covo è, probabilmente, l’unico locale al mondo che non ha il backstage, obbligando tutte le band a caricare e scaricare gli strumenti passando attraverso una sala spesso gremita. Un particolare bizzarro che mi ha sempre affascinato. Un po’ perché mi ricorda i miei primi concerti in minuscoli localetti di provincia con minuscoli palchi removibili montati alla buona sopra i tavoli in fondo. Un po’ perché in questo modo si crea una sintonia con il pubblico insolita, un contatto fisico che spesso viene evitato e soprattutto non permette alle band di fare la consueta pausa prima dei bis, usanza che personalmente non apprezzo particolarmente, dato che i bis in questione generalmente sono già previsti dalla scaletta.

 

Un po’ di stretching iniziale, due arpeggi distorti di introduzione e ci si inizia a urlare in faccia. C’è chi urla per non ascoltare gli altri, chi per sottomettere qualcuno e chi per nascondere la propria paura; ma c’è anche chi urla per canalizzare la rabbia. Urlare diventa quindi una valvola di sfogo e qui, anche un momento di condivisione. Tutti abbracciati, a muso duro di fronte al cantante, come la curva di una squadra di calcio di serie C davanti al capo ultras, qui Jacopo Lietti, tutti consapevoli che l’importante è cantare, non vincere. Questo è lo spirito, partecipare per non precipitare. Questo è lo spirito emo, punk, hardcore, diy, indie, o chiamatelo come vi pare. Partecipare e urlare a squarciagola Abbiamo reso il mondo un posto peggiore sopra le note di Come pecore.

 

 

Tutto il repertorio in italiano della band milanese inizia a farsi strada tra il pogo e lo stage diving forsennato. Vecchi classici che hanno segnato da anni le vite degli spettatori, e nuovi capolavori che già tutti conoscono a memoria. Nuovi capolavori come Trabocchetti, uno dei pezzi più riusciti dell’ultimo album, che rappresenta anche la nuova direzione della band, sempre meno legata allo screamo e sempre più direzionata verso i panorami sonori sterminati del post-rock, che sfiorano a tratti le sonorità ovattate e riverberate dello shoegaze. Una versione più intima, sostenuta da una batteria portata ai minimi termini ma che comunque riesce a far ondeggiare il pubblico concentrato sui lacci sporchi delle proprie scarpe, che oserei dire all’80% Dr. Martens. I testi, ora ridotti anche questi all’osso, si trasformano in un mantra, in un coro lamentoso che si sviluppa per diversi minuti finché tutto ma proprio tutto il pubblico non si mette a urlare in faccia a Jacopo e lui può finalmente lasciare spazio alla voce degli spettatori e concentrarsi su qualche nuovo esercizio di stretching. Più spazio alle parole, poche ma buone, questo è la nuova strada dei FBYC. E funziona!

 

 

Con Sequel e Nonsenso comune riprendiamo un po’ fiato e sorseggiamo quel tanto di birra che ci serve per recuperare la voce per il gran finale. Siamo arrivati quasi al 90° e abbiamo la percezione che i Fine Before You Came siano qualcosa di più di una classica band della scena underground italiana. Hanno l’affiatamento della classica squadra di calcetto di amici. Gli sguardi, le parole sussurrate nelle orecchie, i sorrisi anche quando ci sono i problemi, come quelli di una chitarra completamente muta nei primi due pezzi o i volumi di spia troppo alti. Sono una squadra non creata per vincere, ma per divertirsi e divertire. Una squadra che gioca per lo spettacolo, al di là del risultato finale, come quando Jacopo si è alzato in verticale sulle braccia e si è lanciato di schiena sul pubblico. Il tutto continuando a cantare, fatto che mi rende ancora perplesso e con il desiderio di chiedere a Tania Cagnotto se è una cosa possibile o se ho sognato a occhi aperti. Lista, Magone  e Distanze sono il loro schema d’attacco, il loro 4-4-2, la loro azione da gol che lascia il pubblico in debito di ossigeno. Sono l’azione da gol che gli fa sbancare il campo dell’Inverno Fest e ci lascia con tanti lividi sulle braccia, che continueremo a battere per mantenere viola in attesa di IDLES e KVB.

 

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