Potevamo essere noi.
Sarebbe dovuto essere un altro tipo di articolo e avremmo voluto davvero fosse così. Avremmo voluto parlare di quello che i GodSpeed You! Black Empereor hanno fatto sul palco, raccontandovi delle sensazioni e dei mutamenti di umore che una chitarra può dare a una persona con la giusta predisposizione d’animo, o del ritorno dei guanti con le borchie e di quelli seduti, immersi in quella atmosfera. La verità è che non possiamo farlo, perché quando siamo usciti dal teatro di Venaria la notizia della strage di Parigi ci ha bloccato. Abbiamo pensato immediatamente alle persone che conoscevamo, mandando raffiche di messaggi e sintonizzandoci sulla prima radio che facesse notizia mentre tanti altri, sulla strada verso casa, ancora si godevano quello che restava di quel venerdì sera. Ci è arrivato dopo quel brivido, quando abbiamo sentito che un posto in cui siamo stati tante volte da raccoglitore di felicità si era trasformato in un bagno di sangue. Il Bataclan a Parigi ma poteva essere anche Torino, e quelli potevamo essere noi. E non serve annunciarvi che questa non è una frase da avvoltoi, subito pronti a reclamare quel briciolo di notorietà per cui tanto si dannano, in mano citazioni di Oriana Fallaci e frasi che non si dovrebbero pronunciare, perché con il dolore delle persone non si può speculare e terroristi, diciamolo a parole chiare, lo sono anche loro.
Potevamo essere noi, ma è un po’ come se lo fossimo stati. Gli Eagles of Death Metal da una parte, i Godspeed You! dall’altra. Ci passa veramente poco, e se fossimo stati a Parigi magari saremmo stati lì anche noi per davvero. Trema la mano a pensare a tutto questo, come a Charlie Hebdo, pensare che stragi di questo tipo possano infiltrarsi in posti dove ad essere ammessa dovrebbe essere solo la passione, in un riparo dove abbandonare i problemi. Non servono a nulla le immagini di commiato se poi la risposta è una stupida invocazione all’odio. Perché è quello il loro gioco, perché divisi siamo più facili da colpire. E così hanno fatto, ferendoci nel profondo perché un vespaio è più facile da accendere finché non sente l’arrivo della minaccia ma, una volta che si disperdono impazzite, chiudere la partita diventa inevitabilmente più facile. Si stenta a crederci e, in questi momenti, anche le parole difficilmente svolgono il loro compito di rendere un incubo qualcosa di reale. «Je ne sais pas quoi dire, j’espérait me réveiller et voir que c’etait un cauchemar». Un incubo, mi ha detto un caro amico, per fortuna in salvo. Basta guardare le immagini del giorno dopo, sguardi vuoti, file per donare il sangue, perché serve reagire, il prima possibile, in tempo perché quei demoni non colorino tutto di un nero ancora peggiore. Erano i brividi, televisore e computer accesi. La testimonianza di un sopravvissuto al Bataclan: «Je n’ai pas eu peur, je ne suis pas (encore) choqué. J’écris pour ne pas oublier. »
Non si può semplicemente dimenticare e, ultimamente, lo facciamo spesso. Ci dimentichiamo che la libertà non è qualcosa di stabile e che non possa essere tolto da un momento all’altro. La tensione che alcuni provano guardando in faccia quelli che credono nemici dovrebbe spingere a qualcosa di diverso. Non si deve aver paura del proprio spazio, che non conta davvero poi così tanto, ma a quello di tutti, sennò finiremo a spararci l’un l’altro, a prenderci a pugni per sostenere un’idea, quella umana, che dovrebbe essere di tutti. La religione è solo uno dei cento differenti aspetti che in una situazione come questa debbano essere presi in considerazione. Le religioni non tengono i fucili, come non lo faceva il Mein Kempf o il libretto rosso, Dostoejvskij o Foster Wallace. Gli assassini sì, bestie spietate che nascono con l’odio dentro e che vengono istruite per queste situazioni. Cosa che anche qui, in Italia, in tanti fanno, smerciando il diverso come qualcosa di generalmente cattivo, lo fanno i giornali, lo fa la politica, lo fanno nelle scuole e nelle famiglie. E questi bambini cresceranno in un mondo che si odia, senza conoscere davvero il perché, pronto a sentirsi vicino solo quando gli conviene.
Sarebbe un rischio mortale il lasciarsi trascinare da questo risentimento. Non farlo non significa, necessariamente, non contrattaccare. Ma il risentimento non è un’idea politica, è una scala mobile verso l’abisso. Possono dichiarare guerra, possono chiudere le frontiere e abbandonare l’esercito di Kobane (composto, però, da quegli islamisti cattivi che difendono un’idea di democrazia contro il radicalismo dell’Isis) ma questo non ci salverà davvero da noi stessi. Come non lo farà buttare una donna colpevole di avere un burqa a una fermata della metro, o andare a devastare le banlieux. Non ci si può rinchiudere, non si può semplicemente continuare a vivere. Si può fare la differenza, riflettere e pensare. È il compito che l’occidente non ha mai davvero realizzato, ancora troppo preso nelle sue guerriciole feudali di geopolitca, dentro e fuori il nostro paese.
La mia bacheca social si riempe di colori francesi e di appelli con foto di ragazzi come me, scomparsi solo perché che si trovavano nel posto sbagliato o apprezzavano un certo tipo di musica o un certo menù. Quello in cui potevo essere anche io e che solo un vento di fortuna ha spostata di zona. Ma siamo anche noi, quelli di Charlie e quelli del Bataclan. Siamo noi perché è nostro dovere esserlo, e non possiamo allontanarci da un attacco così. Perché la guerra è totale e non è esplosa ieri. Siamo noi che non abbiamo mai voluto accorgercene, spacciando la xenofobia come arma, quando l’unica che possediamo è quella di restare umani. Allora scendete in piazza, portate i vostri pianoforti davanti alle stragi di tutti i giorni e suonate, fate rumore. Non si può morire per la musica, non lasciate che qualcun altro la scelga per voi.