PARADISO AMARO – sorrisi e malinconia nel più classico dei “dramedy”

La capacità di raccontare storie unendo dramma e commedia senza risultare approssimativi è rara nella cinematografia moderna. Uno dei più abili e apprezzati registi di “dramedy” è senza dubbio Alexander Payne che, dopo l’esordio in sordina nel ’99 con Election, ha dato vita ad un’evoluzione qualitativa realizzando tre film che rappresentano alcuni tra i migliori esempi di fusione tra genere drammatico e commedia. A proposito di Schmidt e Sideways nel giro di due anni avevano rivelato la possibilità di narrare stati d’animo al limite della depressione con un umorismo intelligente e senza forzature comiche inutili, e Payne aveva trovato in eccellenti interpreti come il mito Jack Nicholson e Paul Giamatti due protagonisti ideali per quelle storie.

Ci sono voluti, poi, ben sette anni al regista per decidersi a trasporre sul grande schermo il romanzo a dir poco particolare di Kaui Hart Hemmings, quel Paradiso Amaro che già dal titolo preannunciava una parabola non del tutto rasserenante, e visto gli elementi narrativi portanti il sentore era giustificato: una donna entra in coma dopo un incidente facendo sci nautico e costringe il marito a prendersi cura delle figlie che fino ad allora aveva affettuosamente snobbato; l’uomo, che si sta occupando di vendere un possedimento di famiglia dalla rendita milionaria, scopre che la moglie era intenzionata a mollarlo perché innamorata di un agente immobiliare con cui lo tradiva…e dove può venir fuori la commedia in una storia del genere?

Innanzitutto il Paradiso in questione è lo Stato delle Hawaii, e il prologo della pellicola descrive esattamente l’assurdità del luogo comune di non poter considerare amara un’esistenza vissuta in quella parte di mondo: la commedia prende vita principalmente dall’insieme di personaggi che circondano il protagonista e soprattutto le due figlie e l’amico del cuore della maggiore.

Ognuna delle personalità tirate in ballo mostra una reazione differente a ciò che sta accadendo e la narrazione prende una piega inaspettata mettendo in parallelo il sentimento di dolore profondo per le condizioni della madre/moglie tenuta in vita dalle macchine in stato vegetativo e l’imprevista quanto anomala emozione per la (ri)nascita del rapporto padre-figlie proprio in un momento così tragico.

Come nelle due precedenti pellicole Alexander Payne rende anche quest’ultimo lavoro alla stregua di un road movie, di certo per il senso avventuroso che dà alla storia utilizzando tale espediente per fondere magistralmente tra loro commedia e genere drammatico.

Il particolare da non sottovalutare riguarda l’attore che interpreta il protagonista svestendo i panni consueti che lo avevano reso celebre e amato dal grande pubblico: George Clooney è convincente nonostante la natura imbolsita del personaggio, il fascino smarrito nelle camicie hawaiane e nella condizione di perdente negli affetti e nelle certezze emotive lo accompagnano in un viaggio alla ricerca di risposte che il padre/marito protagonista necessita per capire cosa veramente è stato della sua vita fino ad allora.

Sorprendenti le giovani attrici Amara Miller e Shailene Woodley nei panni delle figlie di Clooney.

Paradiso Amaro è una dimostrazione emblematica di come si possa fare cinema classico con una scrittura e uno stile registico decisamente moderni.

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