Confesso. Confesso un certo scetticismo quando ho appreso che, per la collana Vite Inattese della 66thand2nd, sarebbe uscita la biografia su Paolo Maldini. Non per dubbi sulla qualità del prodotto, data l’elevatissima cura che la casa editrice sempre ripone nei suoi volumi, ma per la scelta del personaggio. Paolo Maldini, leggenda rossonera e una delle ultime bandiere del calcio tricolore, non aveva infatti mai solleticato il mio (ma, come candidamente ammesso, neanche quello dell’autore, Diego Guidi) immaginario calcistico: troppo perfetto, troppo statuario, troppo univoco nella sua carriera. Maldini non ha avuto le umane fragilità di Baggio, la geniale sregolatezza di Maradona, la passionalità viscerale di De Rossi, l’eccezionalità di CR7 (solo per citare alcuni degli altri protagonisti delle Vite Inattese). Maldini ha sempre dato l’idea di “uno che fa il suo lavoro”. Benissimo e con un successo strepitoso, certo, ma uno che fa il suo lavoro. E allora perché una biografia, mi chiedevo? Quale epica c’è da raccontare nella vita e carriera di Paolo Maldini? Confesso che avevo questo dubbio. E che, per fortuna, Diego Guido con il suo Maldini 1041 ha fugato.
Maldini è stato protagonista di un’epoca e, soprattutto, di una fondamentale transizione. Quella dal calcio vecchio stampo al calcio moderno. Sì perché prima di Guardiola, di Messi e dei falsi nueve, è stato un italiano, Arrigo Sacchi, a rivoluzionare la filosofia e la mentalità del gioco del calcio. E prima degli sceicchi, a rivoluzionare il calcio a livello societario è stato Silvio Berlusconi, che ha preso la squadra di stampo operaio di Milano e l’ha trasformata nel primo prodotto di marketing della storia del football. Merchandising, brand communication e visibility, termini che oggi mandano in sollucchero i social media manager meneghini, nascono nella nebbiosa Milano alla fine degli anni ’80, e nascono intorno a una squadra con la maglia a strisce rossonere. Che piaccia o meno, è a partire da questa rivoluzione che ha avuto origine il calcio odierno. E il volto bello, fresco e giovane di quel calcio e di quella squadra è stato Paolo Maldini.
Allevato dalla vecchia generazione dei Baresi e dei Tassotti, Maldini ha proiettato nella contemporaneità il ruolo di difensore, diventando il papà tecnico dei vari Lahm, Puyol e Sergio Ramos. È colui che ha reso anche quella difensiva una “bella arte”, fatta di scivolate eleganti e rapide ripartenze che strappano gli stessi boati di un gol. Colui che ha reso i difensori appetibili agli sponsor, diventando il principale testimonial italiano della Nike a cavallo tra anni ’90 e 2000. Ma soprattutto – e questo il libro di Guido lo sottolinea bene – è colui che ha dimostrato che si può essere calciatori con una testa pensante, che indossare una divisa da calcio non implica che ci si debba spogliare delle proprie opinioni e convinzioni.
Forse Maldini è risultato a lungo un personaggio freddo e distante nell’immaginario collettivo proprio per questo motivo, perché nonostante la sua centralità simbolica ha deciso di difendere gelosamente il suo privato e le sue idee, lontano dagli esibizionistici schiamazzi propri del mondo del calcio. Un atteggiamento che lo ha reso inviso alle frange più estreme del suo stesso tifo (il libro parte proprio dalla contestazione riservatagli da alcuni ultras milanisti alla sua partita d’addio) e ha contribuito a creare quell’aurea statuaria per la quale, per assurdo, sono state più le altre tifoserie ad ammirarlo. Ma è in questo che risiede il principale pregio di Paolo Maldini, 1041: nel mostrarci la testa pensante dietro lo sportivo, dietro il campione, dietro la leggenda. Nel raccontarci, più che il capitano del Milan, l’uomo che ha sempre ponderato le sue scelte, che la rivoluzione della quale si è trovato partecipe non l’ha subita, ma cavalcata. Il fatto che Maldini “abbia fatto il suo lavoro” assume allora tutto un altro significato, perché scopriamo quale e quanto impegno c’è voluto per fare questo lavoro. L’epica della vicenda di Maldini diventa quindi l’epica di una testa pensante, di una leggenda che è diventata tale non solo per il talento dei suoi piedi, ma per il funzionamento di sinapsi e cellule grigie. Un’epica, quindi, decisamente più umana e per questo a noi più vicina. Paolo Maldini, 1041 mi ha fatto innamorare, in ritardo di anni, di Maldini. Questo lo confesso.